venerdì, dicembre 08, 2006

 

LUCANIO 012

Taccuino n. 41

Se il Polonio 210 è, in questo momento, l’elemento chimico più conosciuto a livello mondiale, è grazie alle proprietà letali che esso possiede, utilizzate, come è noto, per eliminare la spia russa Alexander Litvineko. Si tratta di un metalloide radioattivo raro che prende il proprio nome dal paese di origine della scienziata Maria Sklodowska-Curie che, poco più di un secolo fa, scoprì la radioattività degli elementi chimici, ed in particolare di quella minima presenza di polvere nera, appunto il Polonio, che conferiva un valore di quattrocento volte più elevato all’uranio che stava studiando. Per questa ed altre scoperte, la signora Sklodowska fu la prima donna nella storia ad ottenere il premio nobel, dapprima per la fisica, nel 1903 e poi per la chimica, nel 1911. Se la scienziata polacca fosse vissuta in Basilicata, avrebbe sicuramente già scoperto uno dei pochi elementi chimici di cui ancora nessuno ha provveduto a registrarne l’esistenza. Stiamo parlando del Lucanio 012, sostanza improbabile in natura, di cui si sa solo che si ottiene esclusivamente per effetto di una combinazione disastrosa degli elementi di governo. Per questo motivo si chiama così, in attinenza alla regione lucana, che più delle altre risulta malgovernata e che presenta sfaccettature insopportabili nell’operato di chi gestisce la cosa pubblica. Quanto più si agisce scorrettamente, tanto più aumenta il livello di contaminazione e l’incidenza negativa del Lucanio 012 sul tessuto socio economico. Esso, come e più del polonio, risulta deleterio per i cittadini, soprattutto per quelli più giovani. Infatti, il riferimento numerico 012 indica, appunto, la fascia di età che meglio evidenzia le pesanti ripercussioni della contaminazione sulla situazione regionale. E’ stato verificato, infatti, che la riduzione di circa trentamila abitanti della Basilicata ha interessato, in particolare, i giovani in età scolare, che anche quest’anno sono diminuiti di ben oltre un migliaio riducendo, così, all’incirca di altre centoventi unità il numero delle cattedre disponibili per gli insegnanti. Altro che le promesse e l’impegno per creare opportunità di nuova occupazione ai giovani diplomati e laureati lucani. Altro che allarme sui possibili contagi di oggetti e persone che sono state a contatto con Alexander Litvineko. Qui, da noi, non si tratta solo di una temporanea e confusa preoccupazione, come per il caso Scaramella, per il quale non si sa bene dove si ferma il rischio della contaminazione e dove inizia quello dell’intrigo internazionale con tanto di intreccio tra Kgb e non meglio inquadrabili collaboratori dei servizi italiani, bensì di una perfida maledizione che da troppo tempo affligge la gente lucana. Pochi se ne rendono conto, ma bisogna tener presente, che mentre il Polonio, pur provocando conseguenze mortali sulle persone, ha un indice di persistenza relativamente breve, per cui i danni sono limitati ad un arco di tempo di circa centoquaranta giorni, il Lucanio manifesta i suoi effetti a distanza di anni e anni, determinando un progressivo impoverimento della realtà circostante, fino a mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle popolazioni locali. Hai voglia a tranquillizzare da parte dell’Assessore all’Ambiente di turno, come ha fatto in questi giorni Giovanni Rondinone, sull’assenza di rischi e pericoli per i cittadini lucani, derivanti dalla contaminazione radioattiva del terreno circostante il deposito di scorie nucleari di Rotondella. E’ proprio il caso di dire che una rondine, per quanto più grande, non può far primavera, se anch’essa continua a seguire la rotta della mancata verità sulle perdite di radioattività nel suolo, nel mare, sul reale stato dei contenitori, su eventuali cimiteri radioattivi presenti sul territorio di questa regione tanto bella quanto sfortunata. Chi consentì di realizzare da noi l’impianto per separare chimicamente i prodotti di fissione dagli elementi transuranici dell’unico reattore americano che funzionava con una miscela di uranio e torio? Chi fu d’accordo con il boss della ‘ndrangheta che fece seppellire in Basilicata cento fusti di sostanze radioattive? E perché, gli attuali eredi e discendenti di coloro che potevano e non fecero nulla, oggi costruiscono proprio su quegli errori, le loro fortune economiche e politiche? Insomma, che si tratti di petrolio, di vento o di fusti radioattivi, persiste in terra lucana una forma di contaminazione che contrassegna tutti coloro che governano, solo formalmente, in nome del popolo e quasi mai, invece, a favore di esso. La sostanza che la genera è, appunto, il Lucanio 012, che oltre ad essere tossico e dannoso rappresenta anche la maledizione di una stirpe che non si esaurisce facilmente. Ecco spiegato l’interminabile decadimento della società lucana che, così a volte avviene in chimica, anziché dar vita ad una progenie di tipo stabile che segna la fine del processo di disintegrazione radioattiva delle sostanze contaminanti, continua a generare nuclidi instabili incapaci di arrestare il declino e la pericolosa deriva economica e sociale. In tal modo, è così fugato ogni dubbio sulla reale esistenza del Lucanio 012, per il quale non resta che trovare una adeguata collocazione nella tavola periodica degli elementi chimici. Voler negare tale evidenza, equivale a riaffermare l’attualità del concetto del grande Tacito sui ciarlatani: continuano ad esistere!
Gianmatteo del Brica

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sabato, dicembre 02, 2006

 

BUGIARDOPOLI

Taccuino n. 40

Ben l’ottantacinque per cento. Tanti sono gli italiani bugiardi. Tra di essi, così come per gli animali della fattoria di Orwell, ve ne sono alcuni più bugiardi degli altri. Essi sono talmente bugiardi da riuscire perfino a mentire a se stessi.
Non è difficile intuire quali personaggi appartengono a tale categoria, che richiede una buona dose di abilità, perché a differenza della semplice bugia, che si riferisce ad una cosa falsa che in buonafede si crede, però, vera, la menzogna è riferita ad una cosa falsa che si sa che è falsa.
Non è da tutti, ovviamente, saper propinare in modo convinto eresie e baggianate. Occorre maestria e talento artistico per evitare di essere immediatamente colti in castagna, correndo il rischio di rendersi protagonisti di ridicolaggini e magre figure, poco confacenti soprattutto a quanti sono impegnati nella vita pubblica.
Oggi, è molto più difficile di un tempo, farla franca, in quanto gli approfonditi studi comportamentali sulle persone permettono, oramai, di evidenziare con buona approssimazione il diffuso vizietto italico ad abusare della umana credulonità.
Tutti sanno, ad esempio, che esiste una correlazione molto stretta tra la propensione alle bugie ed alle menzogne ed il segno zodiacale di appartenenza. Vediamo di fare una prova empirica attraverso i personaggi delle politica e delle istituzioni che, proprio per la funzione svolta, dovrebbero far parte di quella quota del quindici per cento di italiani esenti dai peccati della mancata verità.
L’Italia negli ultimi quindici anni è stata irrimediabilmente in mano a Prodi o a Berlusconi, così diversi, così simili, tanto che su un magnifico sito internet, è stata efficacemente prospettata la figura del “Berlusprodi”, essere bifronte ,capace di rappresentare contemporaneamnte la destra e la sinistra, a seconda della responsabilità governativa ricoperta .
Prodi ricade sotto il segno del Leone e Berlusconi sotto quello della Bilancia, che sono ambedue caratterizzati dall’esagerata ricerca di porsi al centro dell’attenzione fino al punto di autoconvincersi che solo essi possono cambiare la scomoda realtà che viviamo e con ciò giungere a gonfiare la verità, adattarla, modificarla, snaturarla, ripudiarla.
Insomma, ogni volta che hanno governato, si sono talmente convinti di doverla dire sempre più grossa che alla fine hanno sconfessato le promesse fatte, i propri elettori e finanche se stessi.
Che dire poi, della rappresentazione regionale lucana, che supera qualsiasi altra concentrazione astrale di segno menzognero.
Della categoria di Prodi e Berlusconi, oltre alla vicepresidente del consiglio, Rosa Mastrosimone, ne fa parte l’Assessore all’agricoltura, Gaetano Fierro, il quale per gli indiscussi meriti acquisiti in questo campo nel corso degli anni, verrà prossimamente insignito del “premio Ig-nobel” del secondo millennio.
La sua scoperta, quella dell’inaffondabile sistema di galleggiamento politico-istituzionale resistente sia agli urti esterni che alla Potenza degli attacchi dall’interno, è già oggetto di studio e di culto da parte delle nuove generazioni di politici rampicanti, pronti ad avvinghiarsi all’albero dei frutti sonanti, ancor più tentatori della mela traditrice.
Vi è poi un terzetto di tutto rispetto, Rocco Vita, Erminio Restaino ed Emilia Simonetti, appartenente al segno dell’Ariete che, è sperimentato, si caratterizza per mascherare le frequenti marachelle proprio attraverso il ricorso alla pratica bugiardaiola, né più né meno, come i loro colleghi Gemelli, Antonio Autilio, Roberto Falotico, Marcello Pittella e Gennaro Straziuso, bugiardi per un eccesso di fantasia e per un difetto di memoria che li porta a non ricordare al mattino quanto hanno detto la sera precedente.
Ma il meglio della sintonia popolarmentitoria è rappresentata, ovviamente, dal gruppo dei Verginelli, composto da Gigi Scaglione, Franco Mattia ed Agatino Mancusi, del quale fa indiscutibilmente parte il governatore regionale, Vito De Filippo.
Essi sono avvezzi a raccontarle di tutte le stazze e di tutti i colori, per autoassolversi dai peccati commessi, ma con la convinzione di agire per il meglio secondo un innato istinto manipolativo. Sono convinti di interpretare il pensiero di Papa Sisto V, secondo cui “il fingere è un vizio comune, ma il ben fingere è una virtù particolare”.
E’ proprio vero che in Basilicata, non solo la verità è rara, ma si riesce anche a mentire sulle bugie!

Gianmatteo del Brica

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mercoledì, novembre 29, 2006

 

IDDIEMME

Taccuino n. 39

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la dritta via era smarrita… Ma no, non c’entrano i poeti con Marco Follini, che d’altronde non possiede neanche “le fisique du role”, con quel portamento da signorino sviziato e di impeccabile aplomb che si ritrova, tanto che nemmeno un violento urlo nell’orecchio destro riuscirebbe a farlo sobbalzare. Né sono da meno il suo collega onorevole Riccardo Conti e gli amici di ventura Enzo Scotti, Riccardo Ventre e Ortensio Zecchino. No, l’Italia di Mezzo è tutt’altra cosa che un antico poema o una disperata ode. E’, invece, un arcano dei tempi nostri, alla cui spiegazione nessuno ha saputo dare una risposta esauriente. Ma se non è il parto di una mente estrosa e neppure di un gruppo di buontemponi, allora da dove diavolo sarà spuntata questa IdM che giunge, buon ultima, a rimpinguare la già nutrita schiera di partitoni e partitini (non partiti), movimentoni e movimentini (non movimenti), squadroni e squadrine (non squadre)? Presto detto, l’Italia di Mezzo è nata da un adulterio! Sì, proprio così. Se non ci fossero stati gli incontri goderecci tra sinistra e destra, gli ammiccamenti tra Berlusconi e d’Alema e la irrefrenabile tentazione di coricarsi insieme nel giaciglio degli orgasmi di illiberalità ed antidemocraticità consumati, oramai da quasi tre lustri, dalle due coalizioni, l’IdM, con molta probabilità, non sarebbe mai nata. Invece, pur con tutte le precauzioni assunte da coloro che in questi anni hanno utilizzato le ideologie come un preservativo, da utilizzare, cioè, ogni qualvolta si consumava il tradimento dei valori etici, morali e politici, il figlio non voluto è nato lo stesso. Che sia il frutto di una gravidanza indesiderata, questo lo si capisce bene dalle lamentazioni provenienti da chi, l’Udc in primo luogo, per antica posizione politica, non ha potuto prendere in considerazione nessuna efficace pratica abortiva, né, per lo stesso motivo, ha potuto riconoscere e naturalizzare una creatura concepita al di fuori del vincolo sacramentale. Ecco spietato, così, l’accanimento demonizzante verso il neonato partito che, come un trovatello abbandonato in mezzo alla strada, rischia di far proseliti proprio tra i tanti passanti, tra la gente orfana, a sua volta, di una politica morta, sacrificata alla bramosia di un drappello di capibranco che hanno trasformato i partiti in società con il loro nome e le istituzioni in società col nome dei loro partiti. Quegli ingordi delle due coalizioni che amano agire indisturbati, senza terzi incomodi, per spartirsi ciò che resta di un patrimonio dilapidato e saccheggiato dall’ignavia e dall’affarismo, figuriamoci se potevano accettare e tollerare un pargoletto criticone e indisciplinato che dichiara di voler cambiare l’assetto politico-istituzionale che sta conducendo l’Italia al declino ed alla deriva. Macchè, i regimi non contemplano la discussione e il confronto ma solo l’ubbidienza e l’asservimento. Che se lo ficchino bene in testa Marco Follini e i suoi amici, così come Antonio Flovilla e gli altri incauti dell’IdM lucana. Già, perché proprio in Basilicata, l’Italia di Mezzo ha trovato adepti impensabili per un partito che non ha poltrone da offrire, né finanziamenti da gestire. Certo, nessuno è di primo pelo, dall’ex deputato Gianfranco Blasi ad Antonio Di Sanza e Nicola Manfredelli, Michele Napoli e Matteo Trombetta, ma è fuor di dubbio che, essi più di altri, incarnano quella spinta passionale verso il cambiamento che è il vero macigno da rimuovere in una regione dove la gente è stata per troppo tempo inutilmente costretta a rimanere con la testa piegata. Guai ad alzarla e voltarsi intorno. Proprio per questo non si sono fatti attendere gli ammonimenti preventivi e le minacce sottintese che, puntualmente, sono giunte verso coloro che potrebbero esprimere simpatia e condivisione per il progetto di superare i blocchi che hanno portato al blocco del fare politica per lo sviluppo dell’economia, della democrazia, della libertà. Non a caso, il più diffuso tentativo di condizionamento dell’opinione pubblica è stato quello di dipingere l’IdM come un progetto utopico e velleitario. Come la traversata di un vascello che salpa verso l’ignoto seguendo rotte ed itinerari incerti e pericolosi. Certo che è così. Ma perché, oggi non si naviga a vista, senza la bussola dei valori e dei principi che dovrebbero guidare il buon governo della società? E’ sufficiente, ciò per pensare, senza nessuna benevolenza preordinata di scribano o di testata che, come le caravelle di Cristoforo Colombo, il viaggio velleitario dell’IdM consenta di riscoprire la politica promessa e non l’aridità di una pratica gestionale che conduce al naufragio politico e culturale? Se così non sarà non basterà richiamarsi al passo della Bibbia in cui si dice che “piove sui giusti e sugli iniqui”. Qui c’è di mezzo l’Italia e il suo futuro!

Gianmatteo del Brica

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venerdì, novembre 17, 2006

 

ARIA FRITTA

Taccuino n. 38

Ci ritorno. Eccome, se ci ritorno, sulla questione delle nomine negli enti regionali. D’altronde, qualcuno dovrà pur fare il paladino a difesa, non di una o due persone, ma di oltre 1.600 esclusi, prima illusi e poi rimasti ingannati da un marchingegno a prova di spudoratezza scientifica. Atteso che l’amnesia collettiva che ha improvvisamente colpito, oltre ai “dis-partiti”, perfino gli organi di “dis-informazione”, (tranne, ovviamente, il Balcone e qualche altra “finestrella” informativa) ha portato a disattendere, clamorosamente, i postulati fondamentali della normativa pubblica sugli incarichi che richiedono requisiti di professionalità e non di appartenenza politica, non si creda che sia stato semplice, per Ds, Margherita, Udeur, Sdi, Rifondazione, PdCI, Verdi, IdV e Forza Italia, trovare la formula giusta per infliggere l’esemplare punizione, ai meno osservanti, e per dare la salutare lezione dimostrativa, ai più recalcitranti. Per chi non l’avesse compreso, proprio di questo si è trattato. Il vero obiettivo da conseguire con le nomine da parte della “tirannide partitica” che governa e inciucia in Basilicata non era, paradossalmente, il contentino clientelare da assicurare ad amici e conoscenti, ma il messaggio intimidatorio da far giungere, con tecnica banditesca, a migliaia di persone per far meglio comprendere l’assetto di potere discrezionale precostituito. Non “fortunati” in mezzo a tanti, perciò, ma “mazzieri” più o meno inconsapevoli, per conto dei guappi di un quartiere “a poca edificazione”, pomposamente sorto in fondo alla discesa, con dubbio stile “ventennio fascista”, grazie ai soldi dei cittadini contribuenti. Così, si giustifica il sacrificio dei vari segretari di partito, da Antonio Potenza a Rocco Rivelli, e di tanti consiglieri regionali, da Emilia Simonetti a Rocco Vita, Rosa Mastrosimone, Franco Mollica, Cosimo Latronico, che hanno dovuto chiedere a se stessi ed ai propri parenti o affini, sfidando eroicamente il principio dell’incompatibilità e del buonsenso, di prestarsi ad essere nominati negli enti, indipendentemente dalla sovrapposizione con altre eventuali attività perché, tanto si sa, si tratta di enti che non richiedono grande impegno, per lo più inutili, che esistono proprio e solo per essere “strumentali” ai giochi di bottega. Purtuttavia, le polemiche sorte intorno al pacchetto di nomine da confezionare ad ogni inizio di legislatura, hanno richiesto uno sforzo supplementare di messa a punto della sceneggiata di stagione, in modo da dare un minimo di infiocchettata parvenza istituzionale ad un provvedimento esclusivamente ad uso e consumo dei giovanotti a capo del parco dei divertimenti della Regione. Allora che cosa si sono inventati i diavoletti del quartiere dei “belli di giorno”? Nientemeno che un brainstorm di studiosi ed esperti di fisica e matematica (anche se le prof. Du matematica, di questi tempi, sconcertano non poco i benpensanti), uno “strizzamento di cervelli” da cui ne è scaturita la formula in base alla quale si è giunti alla definizione delle nomine negli enti. Dai verbali segreti delle convulse riunioni di palazzo risulta, ad esempio, che il segretario dei Ds è stato “mandato all’Università” sulla base del seguente postulato: sia Uf (Unione-forza italia) un insieme di insiemi, allora esiste una funzione S (spartizione) tale che per ogni P (partito) appartenente ad Uf si ha una SP di competenza dei vari P. Trovata geniale per procedere non solo alla nomina dei 104 amministratori di enti e società pubbliche regionali ma per spingersi, sulle ali dell’entusiasmo, addirittura a stabilire la competenza di ognuno sull’intero pianeta lucano. Evvivaddio, una volta tanto che si può agire con il conforto della scienza, perché non approfittarne fino in fondo. Tanto, chi vuoi che vada a vedere se si tratta di pensatori illegittimi anziché cattedratici di riconosciuta competenza. Così, senza colpo ferire, in occasione delle nomine, gli specialisti del rastrellamento di incarichi e risorse pubbliche, sono giunti a spartirsi perfino gli elementi costitutivi del creato: la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria. L’acqua, come è noto, è stato deciso che sarà di competenza dell’Udeur, la terra, dei Ds ed il fuoco del sottosuolo petrolifero, della Margherita. i Sull’aria, invece, si è aperta, una duplice contesa con tanto di inqualificabile messinscena, ammantata di sensibiltà energetico-ambientalista, ma sostanziata da evidente fervore eolico-affaristico. Nessuna decisione è stata assunta ma, in attesa di conoscere a chi dovrà rispondere il dio Eolo, possiamo esserne certi che ai fini delle esigenze dei cittadini lucani, si tratterà, ancora una volta, di aria fritta.
Gianmatteo del Brica

venerdì, novembre 10, 2006

 

INSULTRAGGIO

Taccuino n. 37

Furbi, cinici e senza scrupoli, falliti, bugiardi e affaristi, incapaci, arroganti e presuntuosi.

Sto parlando dei governanti giunti a far parte di quella specie di “combriccole di regime” rappresentate dalle pubbliche istituzioni gestite a mò di consigli di amministrazione, dei politicanti a capo delle “cooperative del disonore” cui si sono oramai ridotte le coalizioni politiche, dei “sindacalisti autoreverse” posti a recitare copioni utili alla loro ed all’altrui bisogna ma scritti sempre dallo stesso regista di palazzo, dei “galoppini sculturati” per frequentazione palestrota e per insipienza culturale.

Padoa Schioppa è una schiappa, Rutelli un ammosciapippa, Casini un mediocre trecartista di una qualsiasi area di sosta autostradale che finisce per non ricordare esso stesso chi vince e chi perde, la Gardini una infantile interprete del “mà Ciccio mi tocca, toccami Ci”, Di Pietro un patentato ignorantone e Mastella uno sporco terrone. Più difficile è riuscire a trovare qualche efficace definizione offensiva per Luxuria dal momento che l’epiteto di “frocio” profferito dalla Mussolini fa riferimento ad una parola di origine greca che, addirittura, ha il significato di saggezza.

Non così, invece, per i nostri eroi di cartone che sono alla guida delle istituzioni lucane. Essi sono come i dispensatori “stupefacentieri”, creatori di pericolosi sogni, di false illusioni e di spolianti dipendenze.

Sono insulti ed oltraggi? Nessuna preoccupazione. Me lo posso permettere. Ce lo possiamo permettere, e finalmente giustizia è fatta.

D’ora in avanti, infatti, anche i comuni cittadini potranno liberamente insultare, soprattutto se provocati. Anche a distanza di tempo, come per le provocazioni che per decenni il popolo ha dovuto sopportare senza poter liberamente reagire.

Lo stabilisce una sentenza della Corte di Cassazione che ha giustificato ogni pesante ingiuria di una gentile signora verso coloro da cui si sentiva infastidita. I supremi giudici della Corte, con la sentenza numero trantaseimilaottantaquattro hanno stabilito che “sussiste l’esimente, quando la reazione iraconda segua il fatto ingiusto altrui e consegua ad un accumulo di rancore, per effetto di reiterati comportamenti ingiusti, esplodendo, anche a distanza di tempo, in occasione di un episodio scatenante ed in risposta ad una condotta negligente delle persone offese”.

Vien da pensare che in primis, nello stilare il disposto della sentenza, ai giudici siano balenate le colpe di un “convoglio governativo” che è stato capace di trasformare la locomotiva del miracolo italiano e dei giacimenti lucani in una diligenza squinternata che ad ogni passaggio, anziché benessere e progresso, ha lasciato polvere e briciole del bivaccamento di bordo.

Finora pochi l’avevano ben messo a fuoco, ma oramai è certo. Uno dei principali motivi del progressivo degrado delle nostre realtà risiede proprio nell’inibizione della libertà di insulto da parte della popolazione verso i propri governanti.

Ma con la rimozione di tale vincolo da parte della Corte di Cassazione, finalmente, può essere liberata l’energia propulsiva delle parole sporche, che Freud considerava la molla fondamentale per il progresso e la civiltà.

Si tratta di una pratica che affonda le radici nell’antichità e di cui Vito Tartamella, autore di un recente testo intitolato per l’appunto “Parolacce” puntualizza che le prime tracce scritte in italiano volgare si trovano in un affresco del dodicesimo secolo nella chiesa di S. Clemente a Roma.

Ma alla tradizione si affianca, oggi, la scienza, che ha scoperto come nel cervello umano esiste un vero e proprio apparato specializzato nel produrre e archiviare le parolacce, in grado di resistere anche ai traumi ed alle malattie. Si può perdere la parola ma non le parolacce: per questo motivo esistono Sgarbi e la Mussolini, Luxuria e la Gardini, Calderoli, Ceccherini, Al Bano, Zequila, Platinette. Non dimentichiamo, inoltre, che grazie agli insulti di Materazzi a Zidane, l’Italia è diventata campione del mondo, sennò hai voglia ad aspettare le prodezze di Totti.

Tuttavia, questi protagonisti sembrano essere poca cosa rispetto alla maestria insultatoria degli antichi babilonesi. A quei tempi, perfino il basilico, ritenuto curativo e benefico per eccellenza, veniva seminato pronunciando frasi zeppe di insulti, oltraggi e maledizioni.

Pertanto, se quella civiltà è da prendere a riferimento per risollevare le sorti, la Basilicata e l’Italia possono davvero sperare. Più Babilonia di così!

Gianmatteo del Brica

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venerdì, novembre 03, 2006

 

NOMINATION


Taccuino n. 36

Non ci siamo molto lontano. Dopo lo spettacolo offerto per le nomine negli Enti, oramai il consiglio regionale della Basilicata somiglia sempre più a una specie di reality show, una rappresentazione indecifrabile di uno scenario istituzionale dove non si capisce bene a che punto finisce la realtà e quando inizia la finzione.
La contesa semiseria riguarda oltre cento enti, comitati, uffici, commissioni, fondazioni, e chi più ne ha ne metta, concepiti con prolificità inimmaginabile per una regione a saldo demografico negativo e istituiti con la scusa di rafforzare e modernizzare l’azione pubblica nel governo dei processi per lo sviluppo economico e sociale.
Riflettiamoci un attimo su. Di quanto può migliorare, ad esempio, la qualità della vita dei cittadini lucani, con la nomina dei nuovi dirigenti del Comitato Misto paritetico sulla regolamentazione delle servitù militari (sette componenti effettivi, più un supplente), dei Consigli di aiuto sociale presso i capoluoghi di ciascun circondario dei Tribunali regionali (quattro componenti), della Fondazione Casa di riposo G. Acquaviva di Pietragalla (un componente)?
C’è veramente di che dormire sonni tranquilli! Manca soltanto la Commissione per lo studio delle rotte degli uccelli e il Circolo per la tutela dei fichi secchi.
La verità è che attraverso questo escamotage di dare vita ad una pletora di enti del tutto inutili, si alimenta un modello di costruzione del consenso politico, sempre più vizioso e sempre più disinvolto, fatto di favori di scambio e clientele politiche, che finiscono per sottrarre risorse rilevanti agli interventi indispensabili nel campo della scuola, delle infrastrutture, dell’occupazione.
Siamo di fronte ad un vero e proprio esercito di “accontentati” con stipendi e indennità, a volte di vergognosa entità in una regione ancora afflitta da vaste sacche di povertà.
Di professionalità neanche a parlarne perchè, come è evidente, tali postazioni sono puntualmente appannaggio di coloro che non sono stati eletti al Parlamento, alla Regione, alle Province, ai Comuni, ecc. Fa eccezione, in questa tornata di nomine, soltanto il povero Peppino Molinari che ritenendosi anche truffato, oltre che trombato, in uno scatto di orgoglio, ha dignitosamente rifiutato la poltrona di Amministratore unico dell'Azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale (Ater) di Potenza. Però, non basta, se al contempo, non ci si adopera per sradicare seriamente il malcostume di un sistema politico che utilizza il potere acquisito per fare scempio delle regole democratiche e dell’utilizzo delle risorse pubbliche. Come in occasione delle nomine negli enti da parte del Consiglio regionale.
Quella parvenza di simulacro della democrazia cui è purtroppo ridotta la massima Assemblea territoriale, ha offerto una recitazione che nulla ha a che vedere con l’esercizio responsabile della gestione della cosa pubblica.
Ben milleduecento domande per entrare a far parte del “club delle nomination”. Aspiranti eccellenti, altri meno noti, molti assolutamente anonimi, tutti, però, rigorosamente catalogabili con il cartellino delle appartenenze che assicurano le nomination che potranno essere prese in considerazione. Neanche l’illusione che il proprio curriculum e le proprie capacità possano costituire gli elementi di valutazione per lo svolgimento delle specifiche funzioni e dei compiti relativi agli enti di cui si dovrà far parte. Altro che imparzialità e trasparenza. Si è giunti perfino a protestare pubblicamente, da parte dei Verdi, dell’Italia dei valori e degli altri cosiddetti “partiti minori” verso l’ingordigia e l’incetta di nomine appartenenti ai Ds, alla Margherita ed all’Udeur. Non da meno, una parte della minoranza che, anziché reclamare il rispetto delle corrette procedure, ha lasciato intendere di pretendere una equa spartizione nelle nomine da effettuare. Roba da primissima repubblica, altro che nuova prassi politica.
Si è nominati, in sostanza. Questa è la regola. Come i protagonisti del Grande Fratello, dell’Isola dei famosi, di Circus, di Pupe e secchioni, e via dicendo, nel campionario delle moderne demenzialità. D’altronde, il reality show, così come il Consiglio regionale, non è altro che una rappresentazione di situazioni drammatiche e umoristiche caratterizzate da una certa manovrabilità da parte della regia. L’esito finale è sicuramente fuorviante, diseducativo e preoccupante per l’intera collettività.
Il neurologo Rosario Sorrentino, membro dell’Accademia scientifica americana, afferma che alcuni reality show tendono a ridurre l’autostima dei giovani ed a causare in loro senso di insicurezza, improvvisi cambiamenti di umore e dei comportamenti alimentari, aumento dell’aggressività e dell’abitudine ad abusare di alcool e droghe. Una prospettiva che le future generazioni non si meritano e che richiede un grande cambiamento nella vita politica economica e sociale regionale.
“Sud-svegliati che è tardi…” scriveva Antonino Scuzza, grande personaggio e filosofo autodidatta lucano, a pochi noto, scomparso negli anni sessanta. E si poneva l’interrogativo: “il mio pensiero è assente, ma il tuo dov’è?” Per favore, non rispondete con un’altra nomination!


Gianmatteo del Brica

venerdì, ottobre 27, 2006

 

INVIDIOSISMO

Taccuino n. 35

Nossignori! Non sono più la generosità e l’altruismo, i sentimenti che tacitano lo spirito umano e caricano la molla che spinge la società verso il progresso. La scienza che studia i fenomeni comportamentali alla base dei processi moderni non ha dubbi, infatti, nell’indicare l’invidia come una delle principali componenti per migliorare e rendere più dinamica la società. Tale tesi, solo apparentemente strana, trova conferma nei risultati di un approfondito studio, condotto da un pool di psicologi, su un campione di mille uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Quasi tutti, hanno confessato che l’invidia per il successo e le capacità degli altri costituisce il mordente più efficace per perseguire obiettivi simili a quelli dei propri rivali, dei quali, puntualmente, si finisce per adottarne stili e metodi. Come non dargli ragione, ai ricercatori psicologi, alla luce di quanto stiamo assistendo, con capovolgimenti, fughe in avanti, ritrattazioni, sbugiarderie, messi in atto esclusivamente per raggiungere quelli che oggi sono considerati i fattori di successo più diffusamente invidiati: la ricchezza, il potere e la notorietà. Così, il buon Prodi ha finito per assimilare i dettami dell’agire di Berlusconi ed il centrosinistra per riperpetuare gli stessi vizi contestati al centrodestra. In questo modo si spiegano “l’affaire” Telecom, gli strabismi sulla Finanziaria, la moltiplicazione dei Sottosegretari, la patrimonializzazione dei partiti e degli uomini di partito, l’insofferenza verso le regole democratiche. Se il cavaliere aveva costruito il suo consenso sulle promesse da marinaio, il professore non ha voluto essere da meno, spergiurando il falso in materia di tasse e in tema di libertà, e facendo il pazzo per non andare in guerra, meglio del mitico Ulisse di fronte ad Agamennone, Menelao e Palamede. Sicchè, lo scenario politico che oramai da più di due lustri abbiamo di fronte, è né più né meno che quello di un guazzabuglio “caballero-pintoso“ che va avanti sulla spinta dell’astio, della rabbia, del rancore, dell’invidia tra le opposte fazioni. Insomma, dopo il fascismo e il popolarismo dobbiamo sperare negli effetti positivi dell’”invidiosismo”. E qui nasce qualche problema non da poco, per la popolazione lucana. La rivalutazione dell’invidia come fattore di stimolo per il progresso economico e sociale non è una bella notizia per la Basilicata. Forse si spiega anche così, con la mancanza di persone veramente meritevoli di essere invidiate, lo scarso sviluppo che per secoli ha caratterizzato la regione. Tuttora, se, come affermano gli psicologi, l’invidia, nella società dell’immagine in cui viviamo, deve essere rapportata al desiderio sollecitato alle donne, da chi possiede grande successo professionale, e agli uomini, dalla prestanza o avvenenza fisica, siamo combinati proprio maluccio. Mentre a livello nazionale, tra i personaggi pubblici più invidiati, troviamo la giornalista sportiva Paola Ferrari, Simona Ventura ed Afef, da noi, in cima all’iperattivismo femminile, le donne lucane non trovano top model o star del cinema ma, diligenti attiviste, come la Presidente della Commissione per le Pari Opportunità, Maria Anna Fanelli, e la Presidente del Consiglio Regionale, Maria Antezza che, per quanto animate da buona volontà ed apprezzabile impegno, entrambe, risultano percepite più come l’esito di una gentile concessione-compromissione, da parte dell’assetto maschilista di potere, che come l’exploit professionale di una soggettualità a forte impatto attrattivo ed invidiabile per il resto dell’universo femminile. Sul versante maschile ove, in base alla ricerca, ben il 93% delle persone risulta essere affetto da invidia, il panorama è altrettanto scarno di modelli da prendere a riferimento per stimolare la concorrenza androgena. Gli unici veri tratti delle suggestioni che evocano la rurale mascolinità lucana risiedono, oramai, solo nel rivoluzionario pizzetto di Giacomo Nardiello e nel taurino portamento di Agatino Mancusi. Troppo poco, per innescare quel circolo virtuoso di consapevolezza e dinamismo operativo, agganciato ad una sana dose di invidia verso gli altri, indispensabile per scuotere una realtà stagnante che per uscire dal proprio torpore deve individuare chi poter seriamente invidiare. Atteso che questa funzione non la possono assolvere le Arpie ed i Minotauri delle screditate rappresentanze politiche ed istituzionali, non resta che rifugiarsi nelle rare categorie che ancora conservano un minimo di appeal: quelle non colpite dalla finanziaria e quelle esenti da obblighi e doveri particolari. Insomma, a questo punto, non ci resta che invidiare i cantonieri, le hostess, i sindacalisti e le badanti. Per le meretrici c’è ancora tempo.
Gianmatteo del Brica


venerdì, ottobre 20, 2006

 

STAND UP

Taccuino n. 34
La povertà abita da noi e questo è risaputo. La povertà non si vince con la demagogia scimmiottante e questo è meno scontato alla luce di quanto si fa e non si fa in questo campo. Sicuramente fa rabbia pensare a quanti appelli sono stati sprecati in questi anni per mettere mano ad una piaga che non ci ha mai abbandonato, tanto da dover spedire fuori regione, a volte oltreoceano, a cercar fortuna, circa un milione di lucani. “Cari genitori – scrivevano, con tenere bugie, i nostri emigrati - qui tutto va bene, ho trovato un lavoro che mi fa guadagnare molto e appena avrò messo da parte i soldi per tutta la famiglia tornerò al paese per stare sempre insieme a voi”. Quasi nessuno di essi è mai ritornato ed il triste destino si è consumato nel ricordo di un mondo visto con gli occhi delle notizie mirabolanti che arrivavano nei lontani luoghi dell’emigrazione. A sollecitare il rimpianto per non essere rimasti nella loro terra, contribuiva l’immagine di una Basilicata fuori dal tunnel, moderna e sviluppata, prospera e ricca, finalmente legittimata nello scenario nazionale e mondiale. Come ben sanno quasi tutti, ben altra cosa era, e continua ad essere, la realtà. Un quarto delle famiglie lucane è tuttora povera, non avendo la possibilità di disporre di quei 936,58 € considerati dall’Istat come il limite della moderna decenza umana. Ness’unaltra regione presenta un dato così disarmante, se si tiene conto delle risorse disponibili e dei finanziamenti, copiosamente messi a disposizione dallo Stato e dall’Unione europea, negli ultimi decenni. Eppure, e non venga vista come la solita lamentosa lagna, nulla si fa per superare questa specie di maledizione che grava sul popolo lucano, che anziché cercare di rimuoverla, si preferisce occultarla, edulcorarla, manipolarla. Negli ultimi anni, soprattutto, la povertà della maggioranza del popolo lucano è stata tenuta nascosta ed all’immaginario collettivo è stata offerta l’immagine di una realtà virtuosa, che possedendo acqua e petrolio in abbondanza e che avendo saputo spendere i soldi dei trasferimenti statali ed europei, si configurava come una specie di Yemen o di Liechtstein italiano. In realtà non si trattava di nessun nuovo eldorado ma, tutt’al più, del “villaggio della stentata sopravvivenza” che ha sempre funzionato sulla regola dell’uno per tre: una carota e tre bastonate, un contentino e tre consensi elettorali, un posto di lavoro e tre disoccupati, una promessa a noi e tre affari per loro. Come con il reddito di cittadinanza solidale, con le royalties del petrolio, con i fondi del terremoto, tanto per richiamare qualche esempio. L’ingordigia non può che generare povertà. E così è stato, tanto da fare della Basilicata una specie di regione “low cost”, dove i cittadini per forze di cose devono vivere a basso costo, quasi al pari del miliardo di persone povere che vivono nei paesi in via di sviluppo del terzo mondo. Un popolo abbandonato a se stesso, trascurato e, spesso, anche fastidiosamente redarguito. Alzati e cammina, così si pongono, con impropria irriverenza, coloro che avrebbero dovuto. per missione, per dovere e per coscienza, risolutamente intervenire per impedire che tanti giovani pargoli lucani fossero costretti a prendere il largo per trovare riscontro adeguato alle professionalità ed alle competenze conquistate con grande impegno e sacrifici. “Stand Up”, così è stata battezzata l’iniziativa del Comitato per la lotta alla miseria nel mondo. Milioni di persone, il 15 e 16 ottobre sono state invitate a compiere un semplice gesto, quello di alzarsi, per sollecitare il rispetto degli impegni assunti dai governi per combattere la miseria. Anche la Basilicata ha aderito allo “stand up” e sarà curioso sapere se tra coloro che si sono alzati vi sono anche gli esponenti delle amministrazioni che hanno governato e ridotto alla povertà gran parte del popolo lucano. Se così è, questa volta, per overdose di demagogia e con una certa dose di incoerenza e superficialità, si sono alzati in piedi proprio coloro che dovevano stare seduti, i tanti coccodrilli della politica e delle istituzioni che non hanno perso l’occasione per fare populismo inutile e fuori luogo. Stand Up contro la povertà! Stand Up contro le ingiustizie! Stand Up per rispettare le promesse! Questi erano gli obiettivi principali dell’iniziativa mondiale a cui hanno prontamente aderito le istituzioni e i politici lucani. Sottotitolo più appropriato: Stand Up, alzatevi imputati.
Gianmatteo del Brica


venerdì, ottobre 13, 2006

 

FELICI E SCONTENTI

Taccuino n. 33

Non è come la fortuna, che a volte è dietro l’angolo. La felicità ti sta perfino accanto, ti danza intorno, appare e scompare, ti insinua il dubbio. Fiumi di inchiostro sono stati spesi senza giungere mai ad una definizione compiuta ed esaustiva del fine cui, da sempre, tende l’umanità. E non poteva essere diversamente, dal momento che della felicità si possono fare mille ritratti ma non è consentito di incorniciarla in un quadro da affiggere alla parete. L’importante è riuscire a pensarla, immaginarla e percepirla, magari come un gustoso gelato alla mela verde che, semplicemente, riesce ad appagare lo spirito inquieto di un signore lontano dalle formalità obbligate, quantunque tradito dalle moderne illusioni tecnologiche che alimentano i surrogati di avvincenti dialoghi. Però, se la sfera della felicità non è solo una chimera, ma una preda da inseguire, una specie di caccia al tesoro individuale e collettiva, dove non contano più soltanto le aspettative collegate ai sentimenti ed alle passioni, ma anche il benessere economico e la soddisfazione materiale, ecco che per il popolo lucano giunge un’altra tegola sulla testa. In base alle moderne teorie economiche ed agli studi sulla felicità effettuati da noti scienziati e ricercatori, i cittadini della Basilicata risultano fanalino di coda, non soltanto nella classifica del PIL (prodotto interno lordo) ma anche in quella del FIL (felicità interna lorda). Essa è stata calcolata sulla base del grado di soddisfazione delle persone in relazione ad una serie di componenti strategiche economiche e sociali, di cui farebbero bene i governanti regionali a tenerne debito conto ai fini della definizione degli orientamenti e delle scelte politiche da compiere. Dal campione oggetto di una recente ricerca emerge che, a fronte del 13% dei cittadini italiani che si dichiarano molto felici e del 25% che afferma di essere poco o per niente felice, ben il 61% degli intervistati si considera abbastanza felice della vita che conduce, ma nessuno di esso indica la Basilicata come luogo di felicità. Al primo posto troviamo l’Emilia Romagna, seguita dalla Lombardia, dalla Toscana, dal Veneto, dalla Sicilia e via via tutte le altre regioni, fino a giungere al fondo di una graduatoria, per noi, per nulla gratificante. Se ve ne fosse ancora bisogno, questa preoccupante cartina al tornasole rende evidente l’incoerenza e l’inefficacia delle politiche adottate e forse può contribuire a smascherare una ricetta del modo di governare che si è sostanziata in molto fumo per i cittadini, in tanto arrosto per l’oligarchia al potere, in innumerevoli promesse di futuro benessere, soltanto per convincere i primi ad accontentarsi del fumo. Ma, come è noto, a parte quello associabile agli improponibili inebriamenti molto in voga negli ambienti artistici, sportivi e, non sia mai detto, anche parlamentari, di solo fumo nessuno si è mai saziato né, tantomeno, ha tratto alcun felice giovamento. Eppure, fin dall’antichità, dal tempo degli Egizi, la qualità del saper governare era condizione essenziale per il buon vivere. I popoli più felici, raccontava Frédéric Bastiat, furono quelli dove la legge interveniva di meno lasciando spazio all’individualità delle persone di potersi esprimere liberamente, quelli dove le imposte erano meno pesanti e sbilanciate, dove il lavoro, i capitali, la popolazione, subivano i minori disagi creati ad arte, dove l’umanità poteva seguire maggiormente la propria strada. Fu Ferdinando I, nell’anno 1820, a dare prova di illuminante sapienza governativa, tanto da introdurre nella Costituzione del Regno delle due Sicilie uno specifico articolo sulla felicità: “L’oggetto del governo – recitava l’articolo 13 dell’allora carta fondamentale - è la felicità della nazione; non essendo altro lo scopo di ogni politica società, che il ben essere di tutti gli individui che la compongono”. Ai tempi dei nostri premierati “berlusconprodiani”, abbiamo, invece, che il paese più felice del mondo è quello dell’arcipelago di Vanuatu, mentre l’Italia raggiunge appena il sessantaseiesimo posto. Peggio di così! Ma la Basilicata, per fortuna o sfortuna della sua gente, ha un asso nella manica che altri non hanno: quello di poter conservare una condizione di “felice schiavitù”. Ad incominciare da chi veste i panni di sciamano di periferia e opera, invece, da custode dei padroni del pastificio. Schiavi sì, ma felici. Felici sì, ma scontenti.

Gianmatteo del Brica


venerdì, ottobre 06, 2006

 

AMORALITA'

Taccuino n. 32
C’era una famiglia, mamma Rosina, papà Luigi e quattro figli, di nome Francesco, Domenica, Rocco e Debora. Nelle nostre famiglie, si sa, con l’ultimogenito ci si concedeva il lusso di uscire fuori dalla tradizione e di “segnare” il rampollo di più tenera età con un appellativo modaiolo o inusuale che, a pensarci bene, è stato il primo segnale della falla che si è progressivamente aperta nell’istituzione familiare. La famigliola era completata da nonno Ciccio, componente aggiuntivo, gradito a grandi e piccini, per affetto di stirpe ma anche per titolarità di assegno pensionistico mensile, utile per la sopravvivenza di tutti. Una famiglia come tante, imperniata sulla saggezza, sulla laboriosità e sul rispetto di quei valori morali tramandati di generazione in generazione, che hanno miracolosamente consentito al popolo italiano, impoverito e malridotto dagli eventi bellici, di percorrere, a grandi falcate, il cammino verso lo sviluppo e il benessere. Nel segno di tutti per uno e uno per tutti. Rosa e Luigi riuscivano a camminare lassù, sulle misere zolle di montagna, appena sufficienti ad immaginare il giorno che doveva arrivare. Ma non si persero d’animo, lavorano sodo e in umiltà e non furono più servi del vecchio padrone. Così, conobbero la città, si svincolarono del pudore e del timore del vicinato, allargarono le loro conoscenze e la loro mentalità. Non più rispetto delle antiche usanze e dei principi fuori del tempo, ma moderni atteggiamenti dettati solo dai nuovi riferimenti comportamentali. Quelli dell’interesse personale sopra di tutto, del compromesso ammesso in ogni caso, della furbizia spicciola a danno di chiunque, del cinismo teorizzato e sistematicamente praticato. Anche verso i figli e gli amici più bisognosi. La vecchia famiglia ne risultò annientata e, senza più l’antico spirito di vicinanza e solidarietà, i genitori si dedicarono ad accumulare proprietà e ricchezze, alla figlia Domenica fu riservato un matrimonio di convenienza, Francesco che non aveva studiato fu abbandonato al proprio destino, i figli più giovani, Rocco e Debora, smentendo il detto latino che “nomen omen” (il nome è destino), finirono per fare i camerieri saltuari ogni qualvolta dovevano impasticcarsi. Insomma, quasi senza accorgersene, non si sa come e perché, ma tutte le virtù familiari sparirono e lasciarono il posto ad un lento declino che annullò ogni sacrificio compiuto ed ogni progresso conseguito. Il capofamiglia non volle più ascoltar ragioni e consigli da parte degli altri e pensò esclusivamente ad autoalimentare il proprio potere. Man mano scomparve il sentimento unificante, la visione collettiva, la passione civile e presero il sopravvento l’egoismo individuale, l’utilitarismo sfrenato, la degenerazione comportamentale. Fu il trionfo dell’amoralità e dell’ingiustizia, ed a pagarne le spese furono soprattutto i soggetti più deboli della famiglia: nonno Ciccio, che per poter finire i propri giorni rinchiuso in una casa per anziani dovette impegnare l’intera pensione e Francesco, che per poter continuare ad utilizzare il vecchio casolare ed a coltivare l’orto nel terreno di proprietà dei genitori, fu costretto a pagare un fitto mensile, impegnando gran parte del ricavato delle dure giornate da bracciante. Proprio come i servi di tanto tempo addietro. Proprio come la maggior parte dei cittadini di oggi. Sottoposti all’ingiustizia di una logica amorale e di un modo di agire delle oligarchie di potere che finiscono per sconfessare se stesse e ciò che rappresentano, pur di mantenere l’impalcatura privilegiata. Nessuna morale e nessuna ideologia, né di destra, né di sinistra. La legge finanziaria, di cui tanto si parla, non è né di taglio riformista, né di stampo conservatore. Semplicemente è amorale! Nel senso che non ha nessun rapporto con la morale. Non diciamo quella dei trattati di Cartesio, del Manzoni, di Kant, di Nietzsche, ma quella del civile buonsenso che avrebbe dovuto sconsigliare, ad esempio, di reintrodurre il ticket sul pronto soccorso ospedaliero e, ancor più, di non essere finanche sbeffeggiati dalla “Ministrina” Turco. Ci vuole molta faccia tosta, da parte dell’altra “mascella esageratamente spronunciata”, insieme alla collega gemella Rosy Bindi, ad affermare che si tratta quasi di un servizio aggiuntivo basato sulla dissuasione dei furboni italiani ad andare a trascorre i weekend al pronto soccorso degli ospedali superstiti che ancora non sono stati chiusi. Ma cosa va a pensare, cara Ministra? Le è mai passata per la testa che questa tassa la pagheranno solo i poveri meno poveri, perché quelli più poveri eviteranno di verificare la portata di qualsiasi malanno? Ha mai visto, per caso, un ricco presentarsi al pronto soccorso di un ospedale pubblico? E se l’immagina, gentile Livietta, un cittadino che per non corrispondere l’ingiusto obolo al suo pensare deve sperare che il disturbo avvertito sia un vero infarto? Questa volta la morale della favola è proprio triste: l’amoralità delle persone e dei governi è peggiore dell’immoralità. E’ così che degenerano le famiglie, ed è così che si fa morire la politica.
Gianmatteo del Brica

mercoledì, ottobre 04, 2006

 

CINGHIALOSI

Taccuino n. 31

Oramai ci siamo, quasi. La Basilicata, si appresta a diventare teatro, non più immaginario, della “fattoria degli animali”. Sembra trovare sempre maggior riscontro, infatti, la prospettiva che la profezia di Gorge Orwell si stia avverando in quest’area geografica, dimenticata e malgovernata. Il nuovo potere rivoluzionario è quello degli animali! Cani, gatti, scoiattoli, ma soprattutto cinghiali che, ovviamente, a volte assumono sembianze umane, divertendosi ad aumentare la confusione dei tempi odierni, in cui regna sovrano il trasformismo. E’ nota, la favola del gatto, che anziché fare miao miao, faceva bau bau. Non si trattava di nessuno strano incrocio genetico ma, più semplicemente, di un cucciolo furbacchiotto, che vestendosi dei panni di un ben più possente animale, aveva capito di poter intimorire, non solo i suoi simili, ma anche cani, volpi, lupi e quanti altri suggestionati da tale sortilegio. Ebbene, non mancano, anche da noi, i bau bau che in realtà non sono altro che fragili mici, miracolati dai piccoli espedienti che il sistema politico consente loro di mettere in atto, a danno di intere collettività. Ciò contribuisce a non far venir meno il paradosso di un equilibrio che si regge in virtù del fatto che i forti stanno nei punti deboli e i deboli nei punti forti. Ne sono diretta testimonianza innumerevoli esempi di emeriti “sarchiaponi”, immeritatamente alla guida di enti ed amministrazioni. E’ anche a causa della loro incapacità che intere comunità devono sottostare alle leggi degli animali che, man mano, hanno assunto il governo del territorio. Gli scoiattoli, oramai sono diventati preponderanti a Maratea, la cittadina che rappresenta il gioiello più bello del richiamo turistico in Basilicata. Qui, gli egoisti roditori, a cui risultano invisi i visitatori, stanno realizzando un particolareggiato piano regolatore che fa giustizia degli abusi edilizi e degli scempi ambientali, consumati nel corso degli anni. La loro strategia è quella di rendere inutilizzabili le splendide ville e abitazioni, mettendo fuori uso gli impianti elettrici ed irrigui, nonché, distruggendo orti e giardini, colture agricole e piante ornamentali. Semplice ma efficace, per dare scacco matto a turisti e amministratori, soverchiati dalla determinazione degli animaletti, infaticabili anche nella attività riproduttiva, orami quasi dimessa dal genere umano. I cinghiali, ancor di più, scorazzano indisturbati e spadroneggiano in tutto il Pollino, cuore verde della regione dei tanti parchi e non è azzardato ipotizzare che saranno essi gli animali che assumeranno il potere completo dell’intero territorio. Oramai vanno e vengono, dai boschi ai borghi e, come nell’Odissea di Asterix, si sono conquistati un posto d’onore, tanto da primeggiare, nelle cronache, sui rappresentanti e le autorità locali, incapaci di tener testa al loro dinamismo ed alla loro intraprendenza. Dove si divertono di più, i cinghiali, è nei parchi. Lì, distruggono i raccolti, si avventurano nei centri abitati, danneggiano le autovetture, intimoriscono gli abitanti. Tanto, sanno di poter fare affidamento su impotenti complici istituzionali, come i Presidenti ed i Direttori degli Enti Parco, e c’è da giurarci che appena saranno resi operativi il Parco della Val d’Agri-Lagonegrese e quello del Vulture, si trasferiranno in massa anche in quelle zone. Magari per indurre la Regione a fare quanto è stato necessario in un piccolo paese della provincia di Novara, il cui territorio è stato recintato elettricamente, con all’interno gli abitanti, per difenderne la incolumità. Grandioso! A quei cinghiali bisognerebbe conferire la medaglia al merito, per aver finalmente svelato la reale portata dell’attuale idea gestionale dei parchi, burocratica e vessatoria per la gente, più che per gli animali. Ben venga, allora, il governo delle aree naturalistiche, da parte dei cinghiali. Può darsi che riescano laddove i governanti hanno fallito, costringendo, ad esempio, le compagnie petrolifere ed il governo ad istituire la “zona franca” e non a “farla franca” con gli spiccioli elargiti per assicurare qualche divertimento in più agli amministratori regionali e locali. Fossimo in Vincenzo Folino, prossimo Vice Presidente della Regione in occasione del prossimo rimpasto, da novello “fattore Jones” , tenteremmo subito un accordo con “cinghiale Napoleon”, per scrivere insieme, non importa se a quattro mani o a sei zampe, i comandamenti di un governo, in tal modo, inequivocabilmente “cinghialoso”. D’altronde pochi sanno che i cinghiali (Sus scrofa) oltre ad essere presenti nelle nostre zone ancor prima della comparsa dell’uomo, possiedono quarantasei cromosomi, esattamente quanti ne hanno i nostri governanti, con i quali potrebbero ritenersi, pertanto, perfettamente intercambiabili. Seguendo lo schema usato da Orwell nella fattoria degli animali, avremmo le seguenti accoppiate: il vecchio Maggiore-Folino, Napoleon-De Filippo, Palla di neve-Colangelo, Clarinetto-Nino Grasso, Gondano-Nardiello, Benjamin-Fierro, Berta-Antezza, Mollie-Mastrosimone, Mosè-Latronico, Minimus-Ulderico Pesce, il fattore Jones-Emilio Colombo, Pilkington-Vendola, Frederick-Bassolino. Sul tenore dei comandamenti, esistono pochi dubbi e, in sostanza, ricalcheranno uno schema ben preciso: 1) Qualunque cosa viaggi con le sue idee, è un nemico; 2) Qualunque cosa si trascini a fatica o svolazzi intorno, è un amico; 3) Nessun essere “cinghialoso” deve indossare casacche non filigranate; 4) Nessun essere “cinghialoso” deve dormire sonni tranquilli; 5) Nessun essere “cinghialoso” deve bere direttamente alla fonte; 6) Nessun essere “cinghialoso” deve uccidere senza un preciso ordine; 7) Tutti i “cinghialosi” sono uguali, ma alcuni sono meno uguali degli altri!!! Sintesi del nuovo statuto regionale?
Gianmatteo del Brica

venerdì, settembre 29, 2006

 

CONCUPISCENZA

Taccuino n. 30

Meno male che Prodi non è un bell’uomo e non possiede neanche un pizzico di charme, altrimenti chissà quante donne avrebbe concupito ed abbandonato. Ma non si creda che la mancanza degli attributi alla Tom Cruise, alla Fabio Cannavaro o Costantino Vitagliano, porti a ridurre il livello di concupiscenza del Presidente del Consiglio. Semplicemente, essa, è indirizzata verso altre categorie di peccato contemplate nel decimo comandamento, come quelle della bramosia per impossessarsi della casa del prossimo, delle sue ricchezze, dei suoi servi. In questo campo in particolare, quello, cioè, di utilizzare i suoi collaboratori, quali comodi parafulmini per evitare incresciose situazioni, non mancano i riscontri, nel corso di una carriera, che ha portato Romano Prodi a spaziare dall’economia alla politica, sempre con lo stesso atteggiamento bipolare, bonaccione e cinico, dottor Jekyll e Mr Hyde, Yin e Yang, secondo quella filosofia cinese, rinfrescata nella recente visita in oriente che, come abbiamo visto, è stata capace di combinare gli intrecci delle relazioni economiche tra Cina e Italia con gli affari derivanti dalla fine dell’embargo della vendita delle arm,i ad un paese dove ancora non sono assicurati ai cittadini alcuni elementari diritti civili. Ma cosa importa, tutto ciò, se, quando a guidare l’operato di chi dovrebbe essere saggio e giusto, come il capo del governo, sono prevalentemente la superbia e l’interesse proprio? Assolutamente nulla, e per l’inquilino di Palazzo Chigi, perfino il sentimento di amicizia finisce per costituire un optional tranquillamente rimuovibile dal novero dei principi da rispettare. E’ in tal modo che si giustifica l’abbandono, al loro triste destino, di persone che pure hanno contribuito a fare la fortuna politica ed economica dell’attuale premier. Ad incominciare da Angelo Rovati e per finire a Saverio Lamiranda, personaggio di lungo corso, ritornato alla cronaca recente, chissà perché, per l’inchiesta sui falsi agriturismi. Tutti, oggi parlano del consigliere economico, amico del Presidente, costretto a dimettersi per cercare di ridurre gli imbarazzi sulla vicenda Telecom, mentre pochi ricordano che la scalata al potere politico da parte di Prodi, si intreccia strettamente con le vicende dell’ex Presidente della cooperazione bianca, attraverso il quale fu messo a disposizione il famoso pullman della campagna elettorale che portò al primo governo di centrosinistra. Al costo del carburante, provvide, invece, un certo Callisto Tanzi. Saverio Lamiranda custodisce i segreti e le prove di un modus operandi caro a chi, malgrado gli addebiti e le perplessità politiche dei suoi stessi alleati, è riuscito ad occupare le massime postazioni in Italia ed in Europa. Molti si sono chiesti, in questi anni, come mai, pur avendo dovuto scontare l’ingiustificata gogna pubblica e la pesante mano della giustizia, l’apprezzato manager dei tempi delle partecipazioni statali guidate da Prodi-omino di De Mita, non abbia mai voluto fornire alcun dettaglio della complessa vicenda politico-affaristica che portò alla cessione della Cirio-Bertolli-De Rita da parte della Sme alla Fisvi di Lamiranda, per soli 310 miliardi di vecchie lire, nonostante ne valesse circa mille. Sicuramente, Lamiranda ne sa molto di più rispetto al fatto che lo stesso Prodi era stato consulente della società olandese Unilever, cui subito dopo l’operazione di privatizzazione, fu ceduta una rilevante parte del gruppo alimentare. E, siccome, tutto si può dire dell’ex Presidente di Confcooperative e del dimissionario consigliere economico, fuorché che non siano persone argute ed intelligenti, in grado di valutare perfettamente se, il far conoscere la verità può essere considerato uno sgarro da punire ulteriormente, bisogna presumere che difficilmente, Lamiranda e Rovati, potranno liberamente ottemperare al diritto-dovere di contribuire a rimuovere il circolo vizioso su cui si regge l’impalcatura affaristica-opportunistica della politica italiana. Probabilmente, essi, scontano la leggerezza di aver creduto nel valore di un vincolo di amicizia che nel modus operandi del Presidente del Consiglio non risulta contemplato, se non in combinazione con la tutela dei propri interessi e con il perseguimento dei propri obiettivi. Noi siamo solidali con Lamiranda e Rovati, ma non sarà facile, per loro, digerire l’esperienza di essere stati abbandonati come oggetti ingombranti e non più utili, nel limbo delle anime in castigo e senza luce, a causa di un carniere ricco di prede catturate per conto di un bracconiere che non ricorda mai di essere tale. E in questo, non c’è dubbio alcuno, Prodi è il più bravo di tutti.
Gianmatteo del Brica

martedì, settembre 26, 2006

 

PROVOCAZIONE 2

Taccuino n. 29
Mai proposito fu più opportuno, come quello di provocare. Anche a rischio di far dispiacere chi, per amabilità e signorilità, non meriterebbe di essere annoverato tra gli occultatori e i millantatori di una realtà molto diversa, da quella quotidianamente dipinta per la “terra senza confini”. Cominciamo proprio da qui. Se le parole hanno un senso, e non sono soltanto un pretesto per riempire spazi di tempo e accompagnare inutili riti, bisognerebbe immediatamente bandire dal vulgo lucano, tale definizione. Essa, infatti, lungi dal rappresentare uno slogan originale per indicare la Basilicata, costituisce una vera e propria sciocchezza, che cozza violentemente con la strategia politica del rafforzamento dell’identità regionale che, come è noto, è basata, invece, sull’esaltazione della specificità territoriale e culturale.
Due sono le ipotesi: o, tale idea, non è farina del sacco di De Filippo, oppure il governatore lucano non è, come si narra, l’attento studioso di materie letterarie e trattati filosofici. Propendo per la prima spiegazione che, però, non salva del tutto il massimo rappresentante istituzionale, in quanto, si dimostra che i condottieri nostrani, non sono altro, che semplici pedine di una scacchiera dipinta con le logiche del ricatto e dell’opportunismo.
Da parte di chi? E’ presto detto. Innanzitutto degli intermediari dell’affarismo istituzionalizzato. A partire da quello del condizionamento politico e sindacale e giù, giù, nella catena di Sant’Antonio, fino a quello economico e dell’informazione. Si tratta di meccanismi delicati e pericolosi, sui quali è di prassi l’omertà e l’accondiscendenza utilitaristica, e che solo una sana e consapevole libidine provocatoria può portare, in qualche misura, a smascherare. Esercitazione non semplice, ma necessaria, per tentare di uscire fuori dalle sabbie mobili, di un tran tran senza sbocchi, che alimenta un perverso sistema di trappole e trabocchetti, infruttuoso per tutti, maggioranza e opposizione, lavoratori e imprenditori, ricchi e poveri.
Che abilità, ragazzi. Da nessun altra parte si è stati capaci di far proprio, il primato di un gioco, che alla fine, non ha nessun vincitore, ma esclusivamente perdenti: non solo chi ubbidisce, ma anche chi comanda. Ognuno si crede più furbo dell’altro, senza rendersi conto, che i trucchi messi in atto, finiscono per confondere ed imbrogliare proprio se stessi, rendendo vittime innocenti le future generazioni a cui si rischia di consegnare un territorio devastato ed una cultura devastante.
E allora, è una esagerazione voler dar fondo alla provocazione più spinta per mettere a nudo la cruda realtà? Non lo credo, perciò procediamo con qualche utile esemplificazione.
Prima provocazione: i sindacati scimmiottano i partiti, costano molto, sono quasi del tutto subalterni al potere politico e, pertanto, le ricorrenti analisi socio-economiche dei tre moschettieri di montagna, Falotico, Vaccaro e Delicio, pur condivisibili nella forma, risultano false, nella sostanza di una pratica collaterale e consociativa alla Giunta regionale ed ai partiti che governano. Di fatto, i segretari di Cgil, Cisl e Uil, nel loro fare “di pendolo”, a mò di cucù oscillanti, tra il richiamo delle rispettive chiese madri e la funzione cui sono titolati, stanno accompagnando la chiusura dei battenti di numerose aziende, che vanno via dalla Basilicata, dopo aver beneficiato di rilevanti finanziamenti statali e regionali, in cambio solo di qualche assunzione clientelare in occasione delle tornate elettorali. Non è di questo sindacato-cuscinetto che si ha bisogno, ma di un soggetto in grado di svolgere una corretta funzione di rappresentanza delle istanze dei lavoratori e dei cittadini.
Seconda provocazione: nella funzione di collettore di risorse finanziarie pubbliche e di occupazione clientelare, la cooperazione si è sostituita alle imprese che hanno finora operato nei diversi settori produttivi, strumentalizzando e svilendo i principi della solidarietà e della mutualità, che sono stati i valori fondanti della cooperazione. In compenso, i vertici delle centrali cooperative, dalla ineffabile Wilma Mazzocco al più sobrio Donato Scavone, sono stati ammessi nel ben remunerato consiglio di amministrazione dell’Asi. Questa cooperazione non è una originale forma di organizzazione del lavoro e dell’impresa ma una ulteriore sovrastruttura, inutilmente costosa, se non finanche dannosa.
Terza provocazione: l’informazione è generalmente piegata e genuflessa ai potentati politici, a partire dal telegiornale regionale, il cui direttore, il solo nell’apparenza pio, Renato Cantore, in modo a volte sfacciato e arrogante, garantisce loro, la vetrina monopolistica di cui dispone. Non da meno, va considerato l’operato del più noto opinionista lucano, Nino Grasso che, da moderno Bertoldo, usa la buona e la malalingua, a seconda dell’occorrenza. Una siffatta informazione è la negazione della libera circolazione delle idee che caratterizza una società democratica.
Ultima provocazione: ma è proprio vero che il popolo lucano mantiene alto il vessillo dell’orgoglio e della dignità umana? O, piuttosto, quella che è scambiata per integrità non corrisponde a semplice sudditanza e capacità di sopportazione? Senza l’OK e la tutela del potere pubblico, con in testa il governatore Bubbico, ci sarebbe mai stata una ribellione come quella di Scanzano? Nossignori. Perciò, che nessuno si senta offeso dalle provocazioni. Replichino, dimostrino il contrario, ma non pretendano di farci credere che non è colpa di nessuna e che è Dio che lo vuole.

Gianmatteo del Brica

sabato, settembre 23, 2006

 

PROVOCAZIONE 1

Taccuino n. 28
Qui non si smuove assolutamente niente. Nessun sussulto, nessuna modifica dello stantio cliché al quale sembriamo condannati.
Ci fosse almeno, ogni tanto, qualche provocazione. Neanche per sogno, anzi, la prima puntualizzazione di rito che oramai si fa, in avvio di qualsiasi discorso, è che non si vuol provocare. Ma perché? Per paura di cosa? Di quali reazioni? E perché mai?
Posso assicurare che si tratta di un timore infondato, a maggior ragione per chi non ha nulla da perdere, come la quasi totalità della popolazione lucana. E poi, bisogna considerare che, come dice il proverbio, “il timor dell’uno aumenta l’ardir dell’altro”; cioè, proprio in virtù di questi atavici timori, reverenziali od opportunistici, del popolo, è stato reso possibile, ai potenti ed ai furbi di turno, di poter liberamente imperversare, ben oltre i propri mezzi e le proprie capacità.
Lo scadimento delle istituzioni e del livello della rappresentanza sociale è sotto gli occhi di tutti e nessuna riforma o innovazione è stata capace di porvi rimedio; ciò, per il semplice fatto che la formula, oramai comunemente adottata, per il governo della società post-industriale, è stata abilmente studiata per occultare la realtà e i fatti, come essi sono.
Sempre più, si è fatto uso, ad esempio, delle sofisticate tecniche basate sulla disinformazione che, unita alla manipolazione, portano ad affermare concetti cari ai comunicatori moderni, come quelli delle bugie ripetute con costanza, che finiscono per sembrare verità incontrovertibili.
In questo modo, però, succede che la realtà stessa diventa una provocazione.
Ebbene, se dire la verità, nel rappresentare la realtà ed i fatti, significa essere provocatori, allora, bisogna deliberatamente provocare!
Non gratuitamente, non genericamente, senza alcuna cattiveria, ma semplicemente per cercare di offrire un contributo, al cambiamento necessario, per migliorare la società e ciascuno di noi.
Occorre provocare l’orgoglio popolare, i manipolatori di verità, gli arroganti di posizione, gli operatori della discrezionalità pubblica, i fustigatori del nobile agire.
La parola “provocazione” significa “chiamare fuori”, “stuzzicare”, “stimolare” ed è sulla base di tale significato che bisogna agire per portare alla luce verità, spesso scomode, che sono tenute volutamente celate, oppure fatti e situazioni, di cui viene data una interpretazione distorta e irreale.
La cosa curiosa è che se si procede in questo modo si giunge a verificare che, quasi sempre, risultano capovolti i termini delle questioni, e il provocatore finisce puntualmente per diventare il provocato.
Il Sindaco di Potenza, smette,così, di essere Sant’Arsiero cerimoniere e quello di Matera, Fra Ticket elemosiniere.
Ad esempio, se denunciamo che in media, ogni lavoratore degli uffici pubblici, oltre alle ferie, è assente dal lavoro per circa venti giorni lavorativi all’anno, si registra immediatamente la reazione delle organizzazioni sindacali. Ma la vera provocazione è aver detto una scomoda verità oppure aver taciuto un andazzo poco edificante, che se fosse stato noto, avrebbe reso poco credibile le prese di posizione critiche dei sindacati, sulle politiche del lavoro?
Così come, a volte, capita di assistere a dibattiti e confronti tra esponenti politici che se ne dicono di tutti i colori nel tentativo di sostenere le proprie tesi, senza che venga messa in discussione la reciproca licenza di inveire ed offendere. Basta, però, che un semplice cittadino si permetta di contestare quanto da loro affermato, che scatta l’arroganza e il disprezzo verso il popolo bue che si permette di provocare chi ha avuto la divina investitura. Ma la vera provocazione è aver messo a nudo il gioco delle parti nella recita del teatrino messo su ad arte o non, piuttosto, lo sfoggio di insofferenza e superbia di coloro che dovrebbero essere, non i vessatori, ma i servi del popolo?
E il popolo stesso, è sempre vero che è migliore dei suoi rappresentanti o che, invece, si costituisce vittima e si dichiara prigioniero in partenza, pur di non fare la guerra?
E’ evidente che ognuno di tali quesiti sollecita una specifica provocazione che, per questioni di spazio, rimandiamo alla prossima settimana, anticipando che non si mancherà di stuzzicare direttamente quanti hanno influenza e responsabilità sul paradosso di una terra che, a dispetto delle proprie bontà e virtù, si muove solo con le scosse telluriche ed avanza solo sul versante delle frane. Per tutto il resto, continua a rimanere ferma al palo. “Non so se mi sono spiegato”, diceva il grande Totò.

Gianmatteo del Brica

giovedì, settembre 14, 2006

 

“EURO”AMORI

Taccuino n. 27


Come cambiano i tempi. Una volta si portava il ritratto del proprio amore dentro il portafoglio, oggi, il portafoglio è diventato il ritratto del proprio amore. Il rapporto dell’Istat sugli stili di vita degli italiani non lascia spazi a dubbi. Si sta insieme per convenienza, e gli amori non sono più tribolazioni di passioni e sentimenti, ma complicate combinazioni social-finanziarie. “Euro-amori”, nel senso non geografico, ma più squisitamente monetario. Infatti, è oramai confermato dalle statistiche, che per il 57% dei casi, le liti tra i partner, avvengono non più per eccessiva gelosia o per scarsa abilità culinaria, ma per soldi. Con la conseguenza di una crescente incoerenza di fondo nella sfera dei rapporti di relazione, soltanto minimamente attenuata da una apparente, maggiore governabilità, derivante dall’allungamento della durata delle convivenze. In amore come in politica. Similitudine non del tutto azzardata, se si analizzano con attenzione i processi che negli ultimi decenni si sono consolidati nei processi di evoluzione-involuzione della società e della politica. Fino agli anni della cosiddetta prima repubblica, infatti, i fidanzamenti erano meno lunghi, 40 mesi a fronte dei 60 attuali, ma sfociavano in solide unioni basate sul collante della comune appartenenza, della condivisione di progetti e ideali di pensiero, del rispetto dei valori etici e morali fondamentali.La Democrazia Cristiana, il Partito Socialdemocratico, il Partito Repubblicano e il Partito Liberale ebbero, nell’immediato dopoguerra, un brevissimo fidanzamento cui seguì, però, con l’aggiunta del Partito Socialista, un matrimonio che durò mezzo secolo, fino alla disgrazia che ne segnò il loro trapasso, in occasione di tangentopoli. Pur senza alcun intendimento nostalgico, bisogna ammettere che si trattò di ben altra cosa, rispetto alle convivenze attuali, che hanno portato nello stesso giaciglio, gli eredi dei comunisti, dei democristiani e dei socialdemocratici, i moderati e gli oltranzisti, i democratici e gli statalisti, i garantisti e i giustizialisti. Quale collante ideologico e di valori può tenere insieme, nell’Unione, Romano Prodi e Massimo d’Alema, Luciano Violante e Clemente Mastella, Antonio Di Pietro e Ugo Intini, Alfonso Pecoraio Scanio ed Enrico Letta? E nella Casa delle Libertà, Silvio Berlusconi con Fabrizio Cicchitto, Roberto Calderoli con Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini con Giorgio La Malfa? Oppure, per restare in ambiti più localistici, cosa ha fatto fidanzare, oramai da più di un decennio, Emilio Colombo con Antonio Luongo, Vito de Filippo con Vincenzo Folino, Gaetano Fierro con Vincenzo Santochirico, Emilia Simonetti con Gennaro Straziuso, Franco Mattia con Egidio Digilio? Niente di più, niente di meno, che la convenienza di un sodalizi innaturali, frutto di una visione prettamente utilitaristica, che si è affermata in questi anni di assenza della politica nobile e di servizio.Ma, se la politica ha perso la propria funzione e la propria identità, perché mai il contesto sociale dovrebbe comportarsi diversamente? Ecco, allora, che in un siffatto contesto, il connaturato spirito di emulazione dei figli verso i padri ci propone una società come non la vorresti: confusa e spaesata, preoccupata e senza slanci passionali, a volte perfino fredda e cinica. E così come le sezioni di partito non esistono più e le assemblee elettive sono ridotte al rango di semplici formalità ratificanti, l’Istat ci informa che solo il 5,8% degli attuali coniugi si è conosciuto attraverso il vicinato, a fronte del 21,3% del 1964 ed appena il 4,6% contro il 17,5% ad una festa di paese. Di converso, si quadruplicano le unioni nate in discoteca e nei luoghi di vacanza. La Basilicata ha, però, con il 26,7%, il primato nazionale delle conoscenze matrimoniali fatte per strada; con il 2%, quello della più bassa percentuale di convivenze prematrimoniali, con il 55% quello del più alto numero di matrimoni con oltre 100 invitati e con 16,7% quello sui litigi se mettere al mondo, o meno, dei figli. Ovviamente, anche da noi, il primo motivo di litigio è quello su come spendere i soldi, seguito a ruota dalle modalità di educazione dei figli, dall’assenza di dialogo, dal rapporto con i suoceri e dalla mancanza di collaborazione domestica. Proviamo a pensare cosa avviene alla Regione, alle Province, alle Comunità Montane e negli altri Enti pubblici, sui finanziamenti, sulle clientele, sulla mancanza di democrazia, sul dirigismo di vertice e sullo scollamento tra i partiti delle coalizioni. Abbiamo esattamente il canovaccio dei limiti della società disegnati dall’Istat. Tanto, da poter dire che la propagandata capacità di governo delle istituzioni lucane non è altro che una dannosa “pubblicità regresso”, oltre che di inutile gratuiticità.

Gianmatteo del Brica


mercoledì, settembre 06, 2006

 

MINUETTO STONATO

Taccuino n. 26
Si riparte. Con la rubrica e con il “minuetto”. Non quello musicale, ma quello ferroviario. Forse. Il condizionale è d’obbligo, non fosse altro, per il fatto che stiamo parlando di uno dei tanti annunci estivi che, è il caso di dirlo, quasi sempre rispecchiano il detto che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ebbene, anche la Basilicata si aggiunge alle regioni che hanno messo mano alle proprie casse per contribuire a far circolare sulle anguste linee ferroviarie lucane l’ultimo gioiello di treno, appunto il tanto propagandato “minuetto” di Trenitalia, firmato dal noto designer Giugiaro che, a partire dal prossimo 17 settembre, dovrebbe debuttare sulla tratta Potenza-Napoli. Saranno risolti, così, i problemi che da sempre affliggono il principale mezzo di trasporto pubblico? Manco a dirlo. Ci vuol ben altro che un minuetto, per evitare di sentire la solita musica, gracchiante e stantia, proveniente da grammofoni col disco incantato. Eppure ci erano state promesse sinfonie armoniose, o marce vigorose, se questo fosse stato necessario, per giungere, finalmente, ad eliminare quella piaga di arretratezza terzomondista che tuttora contraddistingue lo stato dei trasporti pubblici in Basilicata. Basti pensare che, dopo l’apertura delle prime tratte ferroviarie, la Bari-Matera di Km 75,800, il 15 agosto del 1915 e la Potenza Inferiore-Scalo Pignola di Km 12.130, il 23 Gennaio del 1919, negli anni a seguire furono aperte altre quattordici tratte ferroviarie nel territorio regionale, dopodiché, a partire dal 21 aprile del 1934, con l’inaugurazione delle tratte Altamura-Avigliano e Altamura-Acerenza, iniziò il processo inverso, quello, cioè, della chiusura e della dismissione di gran parte delle linee ferroviarie interne. La Basilicata, oggi, è servita da soli 356 Km. di strada ferrata, per il 93% a binario unico e per il 42% non elettrificata, su cui transitano appena una cinquantina di treni. Roba da far rabbrividire gli abitanti delle infinite distese cinesi o delle sospese montagne peruviane. Tanto che, fino a poco tempo fa, Parlamentari e Consiglieri regionali, non hanno lesinato nessuna critica e nessuna minaccia al Governo ed alla dirigenza delle Ferrovie, per richiamarli ad ottemperare al dovere di eliminare la vergogna dell’indicibile degrado del servizio ferroviario in Basilicata. Bene, giusto, è così che si fa, commentarono in molti, allorché l’attuale sottosegretario all’economia, Mario Lettieri e l’attuale assessore regionale ai trasporti, Franco Mollica, denunciarono, con interpellanze parlamentari ed iniziative istituzionali, le inaccettabili inadempienze del governo e delle ferrovie dello stato. Da allora non è successo più nulla, se non il cambio di guida politica in Italia. Unica ragione, bisogna supporre, del silenzio sulla “questione” trasporti in Basilicata, interrotto solo dall’annuncio del miracolo, manco a farlo apposta, da parte dello stesso assessore che minacciava fuoco e fiamme. Ora, a parte il fatto, che i miracoli avvenuti dopo che le tragedie si sono consumate risultano, più propriamente, semplici palliativi, se non vere e proprie prese in giro, va tenuto conto che, semmai il “minuetto” calcherà le nostre linee ferroviarie, non si tratterà di nessun miracolo, quanto, piuttosto, di un ritardato adempimento. Infatti, forse senza rendersene conto, è stato proprio il responsabile regionale del settore, nel pieno del furore pre-elettorale, a ricordare che la Basilicata è l’unica regione italiana a non essere dotata dei nuovi treni regionali, a far presente i continui disservizi e la scadente qualità del servizio offerto da Trenitalia sulle linee ferroviarie che interessano la Basilicata, ad evidenziare l’inadeguatezza delle infrastrutture esistenti, la mancata elettrificazione della Potenza-Foggia, l’eterna attesa del collegamento di Matera con la rete nazionale. Tutta di colpa di quelli di prima ma, allora, di chi è la colpa se la Basilicata sarà esclusa dalla linea ferroviaria ad alta velocità Napoli-Bari? E dove l’azzecchiamo l’euforia di un treno, sì bello a vedersi, ma addirittura con meno posti a sedere delle vecchie carrozze? E ancora, di quale rilancio del trasporto ferroviario si parla, se su quattro milioni di persone che nell’esodo di ferragosto hanno utilizzato il treno in Italia, soltanto tremila hanno circolato in Basilicata? Non vorrei essere il solito puntiglioso dissacratore e neanche il caustico distruttore di illusioni ferroviarie, ma la storiella del “minuetto” che restituisce ai lucani la fiducia nel trasporto ferroviario, non mi convince proprio. Così si tratta di un “minuetto” stonato. I treni, non importa quanto siano gradevoli, ciò che importa è poterci salire sopra e poter scendere alla stazione giusta.
Gianmatteo del Brica


lunedì, settembre 04, 2006

 

TIRANNIE

Taccuino n. 25
Quel tiranno del Direttore, non ne ha voluto proprio sapere di sospendere, in concomitanza con le meritate vacanze, la rubrica che mi è stata affidata. Che fare? Forse si poteva tentare un ammutinamento o cercare di far pressione sull’editore ma, alla fine, mi son detto, è pur sempre vero che il Brica appartiene alla categoria di coloro che ne sanno una più del diavolo e, pertanto, sono adusi a far di necessità virtù.
Eccomi qui, allora, puntuale come sempre, con i settimanali pensieri fuori e sopra le righe, ma senza rinunciare, al contempo, al relax ed al fascino di una vacanza in lidi lontani, che fanno sognare ancor prima di giungervi. Per fortuna! Perché ai tempi di oggi, quasi sempre, i sogni sono molto diversi dalla realtà. Anche di quella di una meta turistica tanto distante e particolare, come il vecchio Messico, da me scelto, nella convinzione di poter, almeno per un poco, frapporre una salutare barriera al campionario delle ossessionanti aridità nostrane.
Macchè! Se, oramai, la Cina è vicina, figuriamoci il Messico. Solo quando si è laggiù ci si rende conto che i lucani, con la scusa che la Basilicata è diventata una regione talmente “senza confini”, amano “sconfinare” laddove trovano città bellissime, grandiosità di paesaggi, affreschi di lagune colorate, scogliere coralline mozzafiato, oltre che attrezzati e moderni complessi turistici. Unico particolare, non di poco conto, è che a poter “sconfinare” sono soltanto loro, gli inclusi in quell’elite, nominale e formale, prodotta dalle svariate, e a volte, perverse combinazioni della società con la pubblica amministrazione. Si è sostanziato, ha preso piede e si è diffuso, così, quasi ovunque, il più grande mostro tentacolare mai riscontrato, il “PPS”, variopinto ed avviluppante “Partito della Pubblica Spartizione”. E’ questa la vera coalizione che giustifica le maggioranze di governo dei tanti Enti e delle varie Istituzioni. Perciò, nessun privilegio meritocratico o araldico e di nobile casato, ma solo ubbidienza e osservanza del codice di regime riconducibile all’arcata contraddistinta dallo stemma scudettato di azzurro con le ondine trasversali. Per chiunque ne risulti funzionale, prima o poi, giungerà una sicura gratificazione, che non è più quella del panettone natalizio per i figli dei dipendenti, contemplata nei contratti di lavoro di una volta, ma un lauto bonus economico, una deroga ad una norma di legge, un prestigioso incarico, un qualsiasi altro clientelare ammennicolo, fino a giungere, come nel caso in questione, ad un viaggio-vacanza premio in uno dei luoghi del “divertimentificio” globale.
E’ così, che anche da questa parte del globo, mi trovo a rubricare alla presenza inconsapevole di una folta rappresentanza di omaggiati corregionali, “vacanzieri di sostituzione”, colonnelli, marescialli, semplici portaborse, dei titolati generali della nostra cosa pubblica che, seppure affaticati dalle infinite e stressanti scomposizioni e ricomposizioni politiche di un intero anno, a causa di imprevedibili necessità locali, questa volta, hanno dovuto rinunciare agli spettacolari e pittoreschi scenari naturali, di vulcani, foreste, spiagge di bianca sabbia e di acque turchine.
Già, perché, in questa occasione, ai massimi esponenti politico-istituzionali, non è riuscito il giochetto di far credere al popolo lucano che il massimo della vita consiste in qualche manifestazione che la Regione e il Comune capoluogo organizzano per i cittadini in vacanza, in attesa che essi ritornino dagli esclusivi e riservati luoghi di soggiorno estivo. Chi poteva prevedere, infatti, che da iniziative come la “notte della luna” e il “bicentenario di Potenza capoluogo” potessero scaturire polemiche e critiche a non finire, tanto da consigliare ai principali rappresentanti del PPS di rinunciare a partire, per presenziare alle proprie manifestazioni e parate, organizzate, si capisce, con l’intento di rafforzare un regime sempre più tirannico.
Ma vi sono tirannie e tirannie! Ben venga, dunque, alla fine, quella del nostro Direttore di testata, che corrisponde ad un profondo attaccamento al proprio senso del dovere ed al proprio impegno per contribuire a far crescere gli spazi di libertà e di democrazia. Molto diversa è, invece, la tirannia dell’attaccamento al potere ed alle poltrone, alla base della strategia del Partito della Pubblica Spartizione.
Qui, dove mi trovo, la frase più famosa è “Mexico es grande y grande es su destino”, ma non per questo, la Basilicata che è piccola, deve essere condannata ad un piccolo destino.

Gianmatteo del Brica

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