venerdì, settembre 29, 2006

 

CONCUPISCENZA

Taccuino n. 30

Meno male che Prodi non è un bell’uomo e non possiede neanche un pizzico di charme, altrimenti chissà quante donne avrebbe concupito ed abbandonato. Ma non si creda che la mancanza degli attributi alla Tom Cruise, alla Fabio Cannavaro o Costantino Vitagliano, porti a ridurre il livello di concupiscenza del Presidente del Consiglio. Semplicemente, essa, è indirizzata verso altre categorie di peccato contemplate nel decimo comandamento, come quelle della bramosia per impossessarsi della casa del prossimo, delle sue ricchezze, dei suoi servi. In questo campo in particolare, quello, cioè, di utilizzare i suoi collaboratori, quali comodi parafulmini per evitare incresciose situazioni, non mancano i riscontri, nel corso di una carriera, che ha portato Romano Prodi a spaziare dall’economia alla politica, sempre con lo stesso atteggiamento bipolare, bonaccione e cinico, dottor Jekyll e Mr Hyde, Yin e Yang, secondo quella filosofia cinese, rinfrescata nella recente visita in oriente che, come abbiamo visto, è stata capace di combinare gli intrecci delle relazioni economiche tra Cina e Italia con gli affari derivanti dalla fine dell’embargo della vendita delle arm,i ad un paese dove ancora non sono assicurati ai cittadini alcuni elementari diritti civili. Ma cosa importa, tutto ciò, se, quando a guidare l’operato di chi dovrebbe essere saggio e giusto, come il capo del governo, sono prevalentemente la superbia e l’interesse proprio? Assolutamente nulla, e per l’inquilino di Palazzo Chigi, perfino il sentimento di amicizia finisce per costituire un optional tranquillamente rimuovibile dal novero dei principi da rispettare. E’ in tal modo che si giustifica l’abbandono, al loro triste destino, di persone che pure hanno contribuito a fare la fortuna politica ed economica dell’attuale premier. Ad incominciare da Angelo Rovati e per finire a Saverio Lamiranda, personaggio di lungo corso, ritornato alla cronaca recente, chissà perché, per l’inchiesta sui falsi agriturismi. Tutti, oggi parlano del consigliere economico, amico del Presidente, costretto a dimettersi per cercare di ridurre gli imbarazzi sulla vicenda Telecom, mentre pochi ricordano che la scalata al potere politico da parte di Prodi, si intreccia strettamente con le vicende dell’ex Presidente della cooperazione bianca, attraverso il quale fu messo a disposizione il famoso pullman della campagna elettorale che portò al primo governo di centrosinistra. Al costo del carburante, provvide, invece, un certo Callisto Tanzi. Saverio Lamiranda custodisce i segreti e le prove di un modus operandi caro a chi, malgrado gli addebiti e le perplessità politiche dei suoi stessi alleati, è riuscito ad occupare le massime postazioni in Italia ed in Europa. Molti si sono chiesti, in questi anni, come mai, pur avendo dovuto scontare l’ingiustificata gogna pubblica e la pesante mano della giustizia, l’apprezzato manager dei tempi delle partecipazioni statali guidate da Prodi-omino di De Mita, non abbia mai voluto fornire alcun dettaglio della complessa vicenda politico-affaristica che portò alla cessione della Cirio-Bertolli-De Rita da parte della Sme alla Fisvi di Lamiranda, per soli 310 miliardi di vecchie lire, nonostante ne valesse circa mille. Sicuramente, Lamiranda ne sa molto di più rispetto al fatto che lo stesso Prodi era stato consulente della società olandese Unilever, cui subito dopo l’operazione di privatizzazione, fu ceduta una rilevante parte del gruppo alimentare. E, siccome, tutto si può dire dell’ex Presidente di Confcooperative e del dimissionario consigliere economico, fuorché che non siano persone argute ed intelligenti, in grado di valutare perfettamente se, il far conoscere la verità può essere considerato uno sgarro da punire ulteriormente, bisogna presumere che difficilmente, Lamiranda e Rovati, potranno liberamente ottemperare al diritto-dovere di contribuire a rimuovere il circolo vizioso su cui si regge l’impalcatura affaristica-opportunistica della politica italiana. Probabilmente, essi, scontano la leggerezza di aver creduto nel valore di un vincolo di amicizia che nel modus operandi del Presidente del Consiglio non risulta contemplato, se non in combinazione con la tutela dei propri interessi e con il perseguimento dei propri obiettivi. Noi siamo solidali con Lamiranda e Rovati, ma non sarà facile, per loro, digerire l’esperienza di essere stati abbandonati come oggetti ingombranti e non più utili, nel limbo delle anime in castigo e senza luce, a causa di un carniere ricco di prede catturate per conto di un bracconiere che non ricorda mai di essere tale. E in questo, non c’è dubbio alcuno, Prodi è il più bravo di tutti.
Gianmatteo del Brica

martedì, settembre 26, 2006

 

PROVOCAZIONE 2

Taccuino n. 29
Mai proposito fu più opportuno, come quello di provocare. Anche a rischio di far dispiacere chi, per amabilità e signorilità, non meriterebbe di essere annoverato tra gli occultatori e i millantatori di una realtà molto diversa, da quella quotidianamente dipinta per la “terra senza confini”. Cominciamo proprio da qui. Se le parole hanno un senso, e non sono soltanto un pretesto per riempire spazi di tempo e accompagnare inutili riti, bisognerebbe immediatamente bandire dal vulgo lucano, tale definizione. Essa, infatti, lungi dal rappresentare uno slogan originale per indicare la Basilicata, costituisce una vera e propria sciocchezza, che cozza violentemente con la strategia politica del rafforzamento dell’identità regionale che, come è noto, è basata, invece, sull’esaltazione della specificità territoriale e culturale.
Due sono le ipotesi: o, tale idea, non è farina del sacco di De Filippo, oppure il governatore lucano non è, come si narra, l’attento studioso di materie letterarie e trattati filosofici. Propendo per la prima spiegazione che, però, non salva del tutto il massimo rappresentante istituzionale, in quanto, si dimostra che i condottieri nostrani, non sono altro, che semplici pedine di una scacchiera dipinta con le logiche del ricatto e dell’opportunismo.
Da parte di chi? E’ presto detto. Innanzitutto degli intermediari dell’affarismo istituzionalizzato. A partire da quello del condizionamento politico e sindacale e giù, giù, nella catena di Sant’Antonio, fino a quello economico e dell’informazione. Si tratta di meccanismi delicati e pericolosi, sui quali è di prassi l’omertà e l’accondiscendenza utilitaristica, e che solo una sana e consapevole libidine provocatoria può portare, in qualche misura, a smascherare. Esercitazione non semplice, ma necessaria, per tentare di uscire fuori dalle sabbie mobili, di un tran tran senza sbocchi, che alimenta un perverso sistema di trappole e trabocchetti, infruttuoso per tutti, maggioranza e opposizione, lavoratori e imprenditori, ricchi e poveri.
Che abilità, ragazzi. Da nessun altra parte si è stati capaci di far proprio, il primato di un gioco, che alla fine, non ha nessun vincitore, ma esclusivamente perdenti: non solo chi ubbidisce, ma anche chi comanda. Ognuno si crede più furbo dell’altro, senza rendersi conto, che i trucchi messi in atto, finiscono per confondere ed imbrogliare proprio se stessi, rendendo vittime innocenti le future generazioni a cui si rischia di consegnare un territorio devastato ed una cultura devastante.
E allora, è una esagerazione voler dar fondo alla provocazione più spinta per mettere a nudo la cruda realtà? Non lo credo, perciò procediamo con qualche utile esemplificazione.
Prima provocazione: i sindacati scimmiottano i partiti, costano molto, sono quasi del tutto subalterni al potere politico e, pertanto, le ricorrenti analisi socio-economiche dei tre moschettieri di montagna, Falotico, Vaccaro e Delicio, pur condivisibili nella forma, risultano false, nella sostanza di una pratica collaterale e consociativa alla Giunta regionale ed ai partiti che governano. Di fatto, i segretari di Cgil, Cisl e Uil, nel loro fare “di pendolo”, a mò di cucù oscillanti, tra il richiamo delle rispettive chiese madri e la funzione cui sono titolati, stanno accompagnando la chiusura dei battenti di numerose aziende, che vanno via dalla Basilicata, dopo aver beneficiato di rilevanti finanziamenti statali e regionali, in cambio solo di qualche assunzione clientelare in occasione delle tornate elettorali. Non è di questo sindacato-cuscinetto che si ha bisogno, ma di un soggetto in grado di svolgere una corretta funzione di rappresentanza delle istanze dei lavoratori e dei cittadini.
Seconda provocazione: nella funzione di collettore di risorse finanziarie pubbliche e di occupazione clientelare, la cooperazione si è sostituita alle imprese che hanno finora operato nei diversi settori produttivi, strumentalizzando e svilendo i principi della solidarietà e della mutualità, che sono stati i valori fondanti della cooperazione. In compenso, i vertici delle centrali cooperative, dalla ineffabile Wilma Mazzocco al più sobrio Donato Scavone, sono stati ammessi nel ben remunerato consiglio di amministrazione dell’Asi. Questa cooperazione non è una originale forma di organizzazione del lavoro e dell’impresa ma una ulteriore sovrastruttura, inutilmente costosa, se non finanche dannosa.
Terza provocazione: l’informazione è generalmente piegata e genuflessa ai potentati politici, a partire dal telegiornale regionale, il cui direttore, il solo nell’apparenza pio, Renato Cantore, in modo a volte sfacciato e arrogante, garantisce loro, la vetrina monopolistica di cui dispone. Non da meno, va considerato l’operato del più noto opinionista lucano, Nino Grasso che, da moderno Bertoldo, usa la buona e la malalingua, a seconda dell’occorrenza. Una siffatta informazione è la negazione della libera circolazione delle idee che caratterizza una società democratica.
Ultima provocazione: ma è proprio vero che il popolo lucano mantiene alto il vessillo dell’orgoglio e della dignità umana? O, piuttosto, quella che è scambiata per integrità non corrisponde a semplice sudditanza e capacità di sopportazione? Senza l’OK e la tutela del potere pubblico, con in testa il governatore Bubbico, ci sarebbe mai stata una ribellione come quella di Scanzano? Nossignori. Perciò, che nessuno si senta offeso dalle provocazioni. Replichino, dimostrino il contrario, ma non pretendano di farci credere che non è colpa di nessuna e che è Dio che lo vuole.

Gianmatteo del Brica

sabato, settembre 23, 2006

 

PROVOCAZIONE 1

Taccuino n. 28
Qui non si smuove assolutamente niente. Nessun sussulto, nessuna modifica dello stantio cliché al quale sembriamo condannati.
Ci fosse almeno, ogni tanto, qualche provocazione. Neanche per sogno, anzi, la prima puntualizzazione di rito che oramai si fa, in avvio di qualsiasi discorso, è che non si vuol provocare. Ma perché? Per paura di cosa? Di quali reazioni? E perché mai?
Posso assicurare che si tratta di un timore infondato, a maggior ragione per chi non ha nulla da perdere, come la quasi totalità della popolazione lucana. E poi, bisogna considerare che, come dice il proverbio, “il timor dell’uno aumenta l’ardir dell’altro”; cioè, proprio in virtù di questi atavici timori, reverenziali od opportunistici, del popolo, è stato reso possibile, ai potenti ed ai furbi di turno, di poter liberamente imperversare, ben oltre i propri mezzi e le proprie capacità.
Lo scadimento delle istituzioni e del livello della rappresentanza sociale è sotto gli occhi di tutti e nessuna riforma o innovazione è stata capace di porvi rimedio; ciò, per il semplice fatto che la formula, oramai comunemente adottata, per il governo della società post-industriale, è stata abilmente studiata per occultare la realtà e i fatti, come essi sono.
Sempre più, si è fatto uso, ad esempio, delle sofisticate tecniche basate sulla disinformazione che, unita alla manipolazione, portano ad affermare concetti cari ai comunicatori moderni, come quelli delle bugie ripetute con costanza, che finiscono per sembrare verità incontrovertibili.
In questo modo, però, succede che la realtà stessa diventa una provocazione.
Ebbene, se dire la verità, nel rappresentare la realtà ed i fatti, significa essere provocatori, allora, bisogna deliberatamente provocare!
Non gratuitamente, non genericamente, senza alcuna cattiveria, ma semplicemente per cercare di offrire un contributo, al cambiamento necessario, per migliorare la società e ciascuno di noi.
Occorre provocare l’orgoglio popolare, i manipolatori di verità, gli arroganti di posizione, gli operatori della discrezionalità pubblica, i fustigatori del nobile agire.
La parola “provocazione” significa “chiamare fuori”, “stuzzicare”, “stimolare” ed è sulla base di tale significato che bisogna agire per portare alla luce verità, spesso scomode, che sono tenute volutamente celate, oppure fatti e situazioni, di cui viene data una interpretazione distorta e irreale.
La cosa curiosa è che se si procede in questo modo si giunge a verificare che, quasi sempre, risultano capovolti i termini delle questioni, e il provocatore finisce puntualmente per diventare il provocato.
Il Sindaco di Potenza, smette,così, di essere Sant’Arsiero cerimoniere e quello di Matera, Fra Ticket elemosiniere.
Ad esempio, se denunciamo che in media, ogni lavoratore degli uffici pubblici, oltre alle ferie, è assente dal lavoro per circa venti giorni lavorativi all’anno, si registra immediatamente la reazione delle organizzazioni sindacali. Ma la vera provocazione è aver detto una scomoda verità oppure aver taciuto un andazzo poco edificante, che se fosse stato noto, avrebbe reso poco credibile le prese di posizione critiche dei sindacati, sulle politiche del lavoro?
Così come, a volte, capita di assistere a dibattiti e confronti tra esponenti politici che se ne dicono di tutti i colori nel tentativo di sostenere le proprie tesi, senza che venga messa in discussione la reciproca licenza di inveire ed offendere. Basta, però, che un semplice cittadino si permetta di contestare quanto da loro affermato, che scatta l’arroganza e il disprezzo verso il popolo bue che si permette di provocare chi ha avuto la divina investitura. Ma la vera provocazione è aver messo a nudo il gioco delle parti nella recita del teatrino messo su ad arte o non, piuttosto, lo sfoggio di insofferenza e superbia di coloro che dovrebbero essere, non i vessatori, ma i servi del popolo?
E il popolo stesso, è sempre vero che è migliore dei suoi rappresentanti o che, invece, si costituisce vittima e si dichiara prigioniero in partenza, pur di non fare la guerra?
E’ evidente che ognuno di tali quesiti sollecita una specifica provocazione che, per questioni di spazio, rimandiamo alla prossima settimana, anticipando che non si mancherà di stuzzicare direttamente quanti hanno influenza e responsabilità sul paradosso di una terra che, a dispetto delle proprie bontà e virtù, si muove solo con le scosse telluriche ed avanza solo sul versante delle frane. Per tutto il resto, continua a rimanere ferma al palo. “Non so se mi sono spiegato”, diceva il grande Totò.

Gianmatteo del Brica

giovedì, settembre 14, 2006

 

“EURO”AMORI

Taccuino n. 27


Come cambiano i tempi. Una volta si portava il ritratto del proprio amore dentro il portafoglio, oggi, il portafoglio è diventato il ritratto del proprio amore. Il rapporto dell’Istat sugli stili di vita degli italiani non lascia spazi a dubbi. Si sta insieme per convenienza, e gli amori non sono più tribolazioni di passioni e sentimenti, ma complicate combinazioni social-finanziarie. “Euro-amori”, nel senso non geografico, ma più squisitamente monetario. Infatti, è oramai confermato dalle statistiche, che per il 57% dei casi, le liti tra i partner, avvengono non più per eccessiva gelosia o per scarsa abilità culinaria, ma per soldi. Con la conseguenza di una crescente incoerenza di fondo nella sfera dei rapporti di relazione, soltanto minimamente attenuata da una apparente, maggiore governabilità, derivante dall’allungamento della durata delle convivenze. In amore come in politica. Similitudine non del tutto azzardata, se si analizzano con attenzione i processi che negli ultimi decenni si sono consolidati nei processi di evoluzione-involuzione della società e della politica. Fino agli anni della cosiddetta prima repubblica, infatti, i fidanzamenti erano meno lunghi, 40 mesi a fronte dei 60 attuali, ma sfociavano in solide unioni basate sul collante della comune appartenenza, della condivisione di progetti e ideali di pensiero, del rispetto dei valori etici e morali fondamentali.La Democrazia Cristiana, il Partito Socialdemocratico, il Partito Repubblicano e il Partito Liberale ebbero, nell’immediato dopoguerra, un brevissimo fidanzamento cui seguì, però, con l’aggiunta del Partito Socialista, un matrimonio che durò mezzo secolo, fino alla disgrazia che ne segnò il loro trapasso, in occasione di tangentopoli. Pur senza alcun intendimento nostalgico, bisogna ammettere che si trattò di ben altra cosa, rispetto alle convivenze attuali, che hanno portato nello stesso giaciglio, gli eredi dei comunisti, dei democristiani e dei socialdemocratici, i moderati e gli oltranzisti, i democratici e gli statalisti, i garantisti e i giustizialisti. Quale collante ideologico e di valori può tenere insieme, nell’Unione, Romano Prodi e Massimo d’Alema, Luciano Violante e Clemente Mastella, Antonio Di Pietro e Ugo Intini, Alfonso Pecoraio Scanio ed Enrico Letta? E nella Casa delle Libertà, Silvio Berlusconi con Fabrizio Cicchitto, Roberto Calderoli con Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini con Giorgio La Malfa? Oppure, per restare in ambiti più localistici, cosa ha fatto fidanzare, oramai da più di un decennio, Emilio Colombo con Antonio Luongo, Vito de Filippo con Vincenzo Folino, Gaetano Fierro con Vincenzo Santochirico, Emilia Simonetti con Gennaro Straziuso, Franco Mattia con Egidio Digilio? Niente di più, niente di meno, che la convenienza di un sodalizi innaturali, frutto di una visione prettamente utilitaristica, che si è affermata in questi anni di assenza della politica nobile e di servizio.Ma, se la politica ha perso la propria funzione e la propria identità, perché mai il contesto sociale dovrebbe comportarsi diversamente? Ecco, allora, che in un siffatto contesto, il connaturato spirito di emulazione dei figli verso i padri ci propone una società come non la vorresti: confusa e spaesata, preoccupata e senza slanci passionali, a volte perfino fredda e cinica. E così come le sezioni di partito non esistono più e le assemblee elettive sono ridotte al rango di semplici formalità ratificanti, l’Istat ci informa che solo il 5,8% degli attuali coniugi si è conosciuto attraverso il vicinato, a fronte del 21,3% del 1964 ed appena il 4,6% contro il 17,5% ad una festa di paese. Di converso, si quadruplicano le unioni nate in discoteca e nei luoghi di vacanza. La Basilicata ha, però, con il 26,7%, il primato nazionale delle conoscenze matrimoniali fatte per strada; con il 2%, quello della più bassa percentuale di convivenze prematrimoniali, con il 55% quello del più alto numero di matrimoni con oltre 100 invitati e con 16,7% quello sui litigi se mettere al mondo, o meno, dei figli. Ovviamente, anche da noi, il primo motivo di litigio è quello su come spendere i soldi, seguito a ruota dalle modalità di educazione dei figli, dall’assenza di dialogo, dal rapporto con i suoceri e dalla mancanza di collaborazione domestica. Proviamo a pensare cosa avviene alla Regione, alle Province, alle Comunità Montane e negli altri Enti pubblici, sui finanziamenti, sulle clientele, sulla mancanza di democrazia, sul dirigismo di vertice e sullo scollamento tra i partiti delle coalizioni. Abbiamo esattamente il canovaccio dei limiti della società disegnati dall’Istat. Tanto, da poter dire che la propagandata capacità di governo delle istituzioni lucane non è altro che una dannosa “pubblicità regresso”, oltre che di inutile gratuiticità.

Gianmatteo del Brica


mercoledì, settembre 06, 2006

 

MINUETTO STONATO

Taccuino n. 26
Si riparte. Con la rubrica e con il “minuetto”. Non quello musicale, ma quello ferroviario. Forse. Il condizionale è d’obbligo, non fosse altro, per il fatto che stiamo parlando di uno dei tanti annunci estivi che, è il caso di dirlo, quasi sempre rispecchiano il detto che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ebbene, anche la Basilicata si aggiunge alle regioni che hanno messo mano alle proprie casse per contribuire a far circolare sulle anguste linee ferroviarie lucane l’ultimo gioiello di treno, appunto il tanto propagandato “minuetto” di Trenitalia, firmato dal noto designer Giugiaro che, a partire dal prossimo 17 settembre, dovrebbe debuttare sulla tratta Potenza-Napoli. Saranno risolti, così, i problemi che da sempre affliggono il principale mezzo di trasporto pubblico? Manco a dirlo. Ci vuol ben altro che un minuetto, per evitare di sentire la solita musica, gracchiante e stantia, proveniente da grammofoni col disco incantato. Eppure ci erano state promesse sinfonie armoniose, o marce vigorose, se questo fosse stato necessario, per giungere, finalmente, ad eliminare quella piaga di arretratezza terzomondista che tuttora contraddistingue lo stato dei trasporti pubblici in Basilicata. Basti pensare che, dopo l’apertura delle prime tratte ferroviarie, la Bari-Matera di Km 75,800, il 15 agosto del 1915 e la Potenza Inferiore-Scalo Pignola di Km 12.130, il 23 Gennaio del 1919, negli anni a seguire furono aperte altre quattordici tratte ferroviarie nel territorio regionale, dopodiché, a partire dal 21 aprile del 1934, con l’inaugurazione delle tratte Altamura-Avigliano e Altamura-Acerenza, iniziò il processo inverso, quello, cioè, della chiusura e della dismissione di gran parte delle linee ferroviarie interne. La Basilicata, oggi, è servita da soli 356 Km. di strada ferrata, per il 93% a binario unico e per il 42% non elettrificata, su cui transitano appena una cinquantina di treni. Roba da far rabbrividire gli abitanti delle infinite distese cinesi o delle sospese montagne peruviane. Tanto che, fino a poco tempo fa, Parlamentari e Consiglieri regionali, non hanno lesinato nessuna critica e nessuna minaccia al Governo ed alla dirigenza delle Ferrovie, per richiamarli ad ottemperare al dovere di eliminare la vergogna dell’indicibile degrado del servizio ferroviario in Basilicata. Bene, giusto, è così che si fa, commentarono in molti, allorché l’attuale sottosegretario all’economia, Mario Lettieri e l’attuale assessore regionale ai trasporti, Franco Mollica, denunciarono, con interpellanze parlamentari ed iniziative istituzionali, le inaccettabili inadempienze del governo e delle ferrovie dello stato. Da allora non è successo più nulla, se non il cambio di guida politica in Italia. Unica ragione, bisogna supporre, del silenzio sulla “questione” trasporti in Basilicata, interrotto solo dall’annuncio del miracolo, manco a farlo apposta, da parte dello stesso assessore che minacciava fuoco e fiamme. Ora, a parte il fatto, che i miracoli avvenuti dopo che le tragedie si sono consumate risultano, più propriamente, semplici palliativi, se non vere e proprie prese in giro, va tenuto conto che, semmai il “minuetto” calcherà le nostre linee ferroviarie, non si tratterà di nessun miracolo, quanto, piuttosto, di un ritardato adempimento. Infatti, forse senza rendersene conto, è stato proprio il responsabile regionale del settore, nel pieno del furore pre-elettorale, a ricordare che la Basilicata è l’unica regione italiana a non essere dotata dei nuovi treni regionali, a far presente i continui disservizi e la scadente qualità del servizio offerto da Trenitalia sulle linee ferroviarie che interessano la Basilicata, ad evidenziare l’inadeguatezza delle infrastrutture esistenti, la mancata elettrificazione della Potenza-Foggia, l’eterna attesa del collegamento di Matera con la rete nazionale. Tutta di colpa di quelli di prima ma, allora, di chi è la colpa se la Basilicata sarà esclusa dalla linea ferroviaria ad alta velocità Napoli-Bari? E dove l’azzecchiamo l’euforia di un treno, sì bello a vedersi, ma addirittura con meno posti a sedere delle vecchie carrozze? E ancora, di quale rilancio del trasporto ferroviario si parla, se su quattro milioni di persone che nell’esodo di ferragosto hanno utilizzato il treno in Italia, soltanto tremila hanno circolato in Basilicata? Non vorrei essere il solito puntiglioso dissacratore e neanche il caustico distruttore di illusioni ferroviarie, ma la storiella del “minuetto” che restituisce ai lucani la fiducia nel trasporto ferroviario, non mi convince proprio. Così si tratta di un “minuetto” stonato. I treni, non importa quanto siano gradevoli, ciò che importa è poterci salire sopra e poter scendere alla stazione giusta.
Gianmatteo del Brica


lunedì, settembre 04, 2006

 

TIRANNIE

Taccuino n. 25
Quel tiranno del Direttore, non ne ha voluto proprio sapere di sospendere, in concomitanza con le meritate vacanze, la rubrica che mi è stata affidata. Che fare? Forse si poteva tentare un ammutinamento o cercare di far pressione sull’editore ma, alla fine, mi son detto, è pur sempre vero che il Brica appartiene alla categoria di coloro che ne sanno una più del diavolo e, pertanto, sono adusi a far di necessità virtù.
Eccomi qui, allora, puntuale come sempre, con i settimanali pensieri fuori e sopra le righe, ma senza rinunciare, al contempo, al relax ed al fascino di una vacanza in lidi lontani, che fanno sognare ancor prima di giungervi. Per fortuna! Perché ai tempi di oggi, quasi sempre, i sogni sono molto diversi dalla realtà. Anche di quella di una meta turistica tanto distante e particolare, come il vecchio Messico, da me scelto, nella convinzione di poter, almeno per un poco, frapporre una salutare barriera al campionario delle ossessionanti aridità nostrane.
Macchè! Se, oramai, la Cina è vicina, figuriamoci il Messico. Solo quando si è laggiù ci si rende conto che i lucani, con la scusa che la Basilicata è diventata una regione talmente “senza confini”, amano “sconfinare” laddove trovano città bellissime, grandiosità di paesaggi, affreschi di lagune colorate, scogliere coralline mozzafiato, oltre che attrezzati e moderni complessi turistici. Unico particolare, non di poco conto, è che a poter “sconfinare” sono soltanto loro, gli inclusi in quell’elite, nominale e formale, prodotta dalle svariate, e a volte, perverse combinazioni della società con la pubblica amministrazione. Si è sostanziato, ha preso piede e si è diffuso, così, quasi ovunque, il più grande mostro tentacolare mai riscontrato, il “PPS”, variopinto ed avviluppante “Partito della Pubblica Spartizione”. E’ questa la vera coalizione che giustifica le maggioranze di governo dei tanti Enti e delle varie Istituzioni. Perciò, nessun privilegio meritocratico o araldico e di nobile casato, ma solo ubbidienza e osservanza del codice di regime riconducibile all’arcata contraddistinta dallo stemma scudettato di azzurro con le ondine trasversali. Per chiunque ne risulti funzionale, prima o poi, giungerà una sicura gratificazione, che non è più quella del panettone natalizio per i figli dei dipendenti, contemplata nei contratti di lavoro di una volta, ma un lauto bonus economico, una deroga ad una norma di legge, un prestigioso incarico, un qualsiasi altro clientelare ammennicolo, fino a giungere, come nel caso in questione, ad un viaggio-vacanza premio in uno dei luoghi del “divertimentificio” globale.
E’ così, che anche da questa parte del globo, mi trovo a rubricare alla presenza inconsapevole di una folta rappresentanza di omaggiati corregionali, “vacanzieri di sostituzione”, colonnelli, marescialli, semplici portaborse, dei titolati generali della nostra cosa pubblica che, seppure affaticati dalle infinite e stressanti scomposizioni e ricomposizioni politiche di un intero anno, a causa di imprevedibili necessità locali, questa volta, hanno dovuto rinunciare agli spettacolari e pittoreschi scenari naturali, di vulcani, foreste, spiagge di bianca sabbia e di acque turchine.
Già, perché, in questa occasione, ai massimi esponenti politico-istituzionali, non è riuscito il giochetto di far credere al popolo lucano che il massimo della vita consiste in qualche manifestazione che la Regione e il Comune capoluogo organizzano per i cittadini in vacanza, in attesa che essi ritornino dagli esclusivi e riservati luoghi di soggiorno estivo. Chi poteva prevedere, infatti, che da iniziative come la “notte della luna” e il “bicentenario di Potenza capoluogo” potessero scaturire polemiche e critiche a non finire, tanto da consigliare ai principali rappresentanti del PPS di rinunciare a partire, per presenziare alle proprie manifestazioni e parate, organizzate, si capisce, con l’intento di rafforzare un regime sempre più tirannico.
Ma vi sono tirannie e tirannie! Ben venga, dunque, alla fine, quella del nostro Direttore di testata, che corrisponde ad un profondo attaccamento al proprio senso del dovere ed al proprio impegno per contribuire a far crescere gli spazi di libertà e di democrazia. Molto diversa è, invece, la tirannia dell’attaccamento al potere ed alle poltrone, alla base della strategia del Partito della Pubblica Spartizione.
Qui, dove mi trovo, la frase più famosa è “Mexico es grande y grande es su destino”, ma non per questo, la Basilicata che è piccola, deve essere condannata ad un piccolo destino.

Gianmatteo del Brica

sabato, settembre 02, 2006

 

FAVOLE

Taccuino n. 24
Anche io voglio raccontare una favola! Certo che se ne raccontano di favole! Non più nell’aia o intorno al fuoco, come una volta, ma soprattutto sui giornali e nelle dichiarazioni politiche che precedono momenti topici, come quello del periodo estivo.
Non favole contadine e nemmeno metropolitane, ma solo affermazioni di vacua propaganda e di opportunistica furbizia, spaziando, di volta in volta, con invenzioni che neanche usando la tortura potrebbero sollecitare l’immaginario popolare. Sono anni che si favoleggia e se ne dicono di tutti i colori, dal Pollino che si congiunge con la luna, al Metapontino che si tinge di teutonico, alla valle dell’Agri che riesce a profumare il mondo, a Maratea che diventa lo specchio magico di tutte le virtù soleggianti.
Ma tra le improbabili “favole della calura”, non più di tanto criticabili in quanto, per lo più, dettate da lidi a forte insolazione, spicca, puntualmente, quella relativa al rilancio turistico di Monticchio che, come d’incanto, da parte di Sindaci, Assessori, Presidenti e Segretari, viene raccontato come il miracolo degli sforzi istituzionali e della fantasiosa capacità governativa, che in modo impareggiabile riesce a stendere un velo, sfacciato più che pietoso, sul degrado, sull’improvvisazione, sull’oblio che, da sempre contrassegnano quelle due straordinarie pupille d’acqua accolte ed incastonate laddove la natura ha voluto esprimere prepotenza e grandiosità.
Ebbene, anche io voglio raccontare la favola di Monticchio e della Bramea, come un tempo, partendo dalle suggestioni e dai valori che dovrebbero guidare l’operato degli amministratori, prima ancora che costituire la molla dei turisti e dei visitatori.
Eccola: “Un tempo al posto dei laghi di Monticchio vi erano rigogliosi campi coltivati. Quando vi giunse una signora disperata per le sue pene d’amore, gli Dei, intristiti dal gran pianto della donna, fecero oscurare il cielo; subito dopo la montagna si infuocò e la terra fu inghiottita lasciando spazio a due grandi crateri che furono riempiti con le lacrime della Signora del Lago.
La Signora del Lago continuò a vegliare su queste perle d’acqua proteggendo tutte le fanciulle che vi giungevano.
Si racconta del grande desiderio di una fanciulla di specchiarsi nelle limpide acque dei laghi che, dopo aver attraversato campi e boschi, si ritrovò solitaria in questo luogo incantato e misterioso. Presa dall’entusiasmo, essa volle bagnarsi nelle dolci e fresche acque. Tutto sembrava straordinario ma la meraviglia della ragazza fu, ad un tratto, bruscamente interrotta dall’apparizione nel lago di un terribile mostro, metà uomo metà drago che minaccioso si avvicinava sempre più. La fanciulla era come pietrificata e rassegnata ad una sorte drammatica quando d’improvviso vide apparire un imponente cavaliere che con voce rassicurante la invitava a non arretrare. Sulla superficie dell’acqua apparvero allora delle grandi foglie che accolsero la fanciulla salvandola dal terribile mostro. Erano straordinarie ninfee che ancora oggi abbelliscono i laghi di Monticchio. Il cavaliere altri non era che S. Michele Arcangelo in ricordo del quale fu costruita la maestosa Badia proprio nel luogo in cui la fanciulla si fermò ad ammirare lo scenario dei laghi. Quella bellissima fanciulla si trasformò poi in una delicata farfalla, la Bramea, che nelle sere d’estate continua a rispecchiarsi nelle acque dei laghi di Monticchio.”
Ma se si va avanti così, l’Assessore Donato Salvatore, dovrebbe saperlo, dopo aver perso le acque minerali, a Monticchio non ci sarà più neanche la Bramea e la favola raccontata dagli amministratori, non sarà una storia a lieto fine, quanto, piuttosto, un altro triste capitolo del libro delle mortificazioni subite da un popolo che, a dispetto delle grandi ricchezze del territorio, e nonostante i ricorrenti proclami favolistici, continua a scontare le pene del mancato sviluppo.
Se non si recuperano i valori più autentici e lo stretto legame con il territorio, a nulla potrà servire neanche la mozione sulla valorizzazione di Monticchio, che Nicola Pagliuca ha presentato in consiglio regionale. Anzi, al pari della nota favola aviglianese, correrà il rischio di finire cucito vivo in una pelle di somaro, proprio come il barbiere che aveva svelato alla terra il segreto delle orecchie d’asino del sovrano di Lagopesole. D’altronde se è vero che anche da noi i tempi sono cambiati, non è che poi siamo andati molto avanti.

Gianmatteo del Brica

This page is powered by Blogger. Isn't yours?