venerdì, ottobre 27, 2006
INVIDIOSISMO
Nossignori! Non sono più la generosità e l’altruismo, i sentimenti che tacitano lo spirito umano e caricano la molla che spinge la società verso il progresso. La scienza che studia i fenomeni comportamentali alla base dei processi moderni non ha dubbi, infatti, nell’indicare l’invidia come una delle principali componenti per migliorare e rendere più dinamica la società. Tale tesi, solo apparentemente strana, trova conferma nei risultati di un approfondito studio, condotto da un pool di psicologi, su un campione di mille uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Quasi tutti, hanno confessato che l’invidia per il successo e le capacità degli altri costituisce il mordente più efficace per perseguire obiettivi simili a quelli dei propri rivali, dei quali, puntualmente, si finisce per adottarne stili e metodi. Come non dargli ragione, ai ricercatori psicologi, alla luce di quanto stiamo assistendo, con capovolgimenti, fughe in avanti, ritrattazioni, sbugiarderie, messi in atto esclusivamente per raggiungere quelli che oggi sono considerati i fattori di successo più diffusamente invidiati: la ricchezza, il potere e la notorietà. Così, il buon Prodi ha finito per assimilare i dettami dell’agire di Berlusconi ed il centrosinistra per riperpetuare gli stessi vizi contestati al centrodestra. In questo modo si spiegano “l’affaire” Telecom, gli strabismi sulla Finanziaria, la moltiplicazione dei Sottosegretari, la patrimonializzazione dei partiti e degli uomini di partito, l’insofferenza verso le regole democratiche. Se il cavaliere aveva costruito il suo consenso sulle promesse da marinaio, il professore non ha voluto essere da meno, spergiurando il falso in materia di tasse e in tema di libertà, e facendo il pazzo per non andare in guerra, meglio del mitico Ulisse di fronte ad Agamennone, Menelao e Palamede. Sicchè, lo scenario politico che oramai da più di due lustri abbiamo di fronte, è né più né meno che quello di un guazzabuglio “caballero-pintoso“ che va avanti sulla spinta dell’astio, della rabbia, del rancore, dell’invidia tra le opposte fazioni. Insomma, dopo il fascismo e il popolarismo dobbiamo sperare negli effetti positivi dell’”invidiosismo”. E qui nasce qualche problema non da poco, per la popolazione lucana. La rivalutazione dell’invidia come fattore di stimolo per il progresso economico e sociale non è una bella notizia per la Basilicata. Forse si spiega anche così, con la mancanza di persone veramente meritevoli di essere invidiate, lo scarso sviluppo che per secoli ha caratterizzato la regione. Tuttora, se, come affermano gli psicologi, l’invidia, nella società dell’immagine in cui viviamo, deve essere rapportata al desiderio sollecitato alle donne, da chi possiede grande successo professionale, e agli uomini, dalla prestanza o avvenenza fisica, siamo combinati proprio maluccio. Mentre a livello nazionale, tra i personaggi pubblici più invidiati, troviamo la giornalista sportiva Paola Ferrari, Simona Ventura ed Afef, da noi, in cima all’iperattivismo femminile, le donne lucane non trovano top model o star del cinema ma, diligenti attiviste, come la Presidente della Commissione per le Pari Opportunità, Maria Anna Fanelli, e la Presidente del Consiglio Regionale, Maria Antezza che, per quanto animate da buona volontà ed apprezzabile impegno, entrambe, risultano percepite più come l’esito di una gentile concessione-compromissione, da parte dell’assetto maschilista di potere, che come l’exploit professionale di una soggettualità a forte impatto attrattivo ed invidiabile per il resto dell’universo femminile. Sul versante maschile ove, in base alla ricerca, ben il 93% delle persone risulta essere affetto da invidia, il panorama è altrettanto scarno di modelli da prendere a riferimento per stimolare la concorrenza androgena. Gli unici veri tratti delle suggestioni che evocano la rurale mascolinità lucana risiedono, oramai, solo nel rivoluzionario pizzetto di Giacomo Nardiello e nel taurino portamento di Agatino Mancusi. Troppo poco, per innescare quel circolo virtuoso di consapevolezza e dinamismo operativo, agganciato ad una sana dose di invidia verso gli altri, indispensabile per scuotere una realtà stagnante che per uscire dal proprio torpore deve individuare chi poter seriamente invidiare. Atteso che questa funzione non la possono assolvere le Arpie ed i Minotauri delle screditate rappresentanze politiche ed istituzionali, non resta che rifugiarsi nelle rare categorie che ancora conservano un minimo di appeal: quelle non colpite dalla finanziaria e quelle esenti da obblighi e doveri particolari. Insomma, a questo punto, non ci resta che invidiare i cantonieri, le hostess, i sindacalisti e le badanti. Per le meretrici c’è ancora tempo.
venerdì, ottobre 20, 2006
STAND UP
La povertà abita da noi e questo è risaputo. La povertà non si vince con la demagogia scimmiottante e questo è meno scontato alla luce di quanto si fa e non si fa in questo campo. Sicuramente fa rabbia pensare a quanti appelli sono stati sprecati in questi anni per mettere mano ad una piaga che non ci ha mai abbandonato, tanto da dover spedire fuori regione, a volte oltreoceano, a cercar fortuna, circa un milione di lucani. “Cari genitori – scrivevano, con tenere bugie, i nostri emigrati - qui tutto va bene, ho trovato un lavoro che mi fa guadagnare molto e appena avrò messo da parte i soldi per tutta la famiglia tornerò al paese per stare sempre insieme a voi”. Quasi nessuno di essi è mai ritornato ed il triste destino si è consumato nel ricordo di un mondo visto con gli occhi delle notizie mirabolanti che arrivavano nei lontani luoghi dell’emigrazione. A sollecitare il rimpianto per non essere rimasti nella loro terra, contribuiva l’immagine di una Basilicata fuori dal tunnel, moderna e sviluppata, prospera e ricca, finalmente legittimata nello scenario nazionale e mondiale. Come ben sanno quasi tutti, ben altra cosa era, e continua ad essere, la realtà. Un quarto delle famiglie lucane è tuttora povera, non avendo la possibilità di disporre di quei 936,58 € considerati dall’Istat come il limite della moderna decenza umana. Ness’unaltra regione presenta un dato così disarmante, se si tiene conto delle risorse disponibili e dei finanziamenti, copiosamente messi a disposizione dallo Stato e dall’Unione europea, negli ultimi decenni. Eppure, e non venga vista come la solita lamentosa lagna, nulla si fa per superare questa specie di maledizione che grava sul popolo lucano, che anziché cercare di rimuoverla, si preferisce occultarla, edulcorarla, manipolarla. Negli ultimi anni, soprattutto, la povertà della maggioranza del popolo lucano è stata tenuta nascosta ed all’immaginario collettivo è stata offerta l’immagine di una realtà virtuosa, che possedendo acqua e petrolio in abbondanza e che avendo saputo spendere i soldi dei trasferimenti statali ed europei, si configurava come una specie di Yemen o di Liechtstein italiano. In realtà non si trattava di nessun nuovo eldorado ma, tutt’al più, del “villaggio della stentata sopravvivenza” che ha sempre funzionato sulla regola dell’uno per tre: una carota e tre bastonate, un contentino e tre consensi elettorali, un posto di lavoro e tre disoccupati, una promessa a noi e tre affari per loro. Come con il reddito di cittadinanza solidale, con le royalties del petrolio, con i fondi del terremoto, tanto per richiamare qualche esempio. L’ingordigia non può che generare povertà. E così è stato, tanto da fare della Basilicata una specie di regione “low cost”, dove i cittadini per forze di cose devono vivere a basso costo, quasi al pari del miliardo di persone povere che vivono nei paesi in via di sviluppo del terzo mondo. Un popolo abbandonato a se stesso, trascurato e, spesso, anche fastidiosamente redarguito. Alzati e cammina, così si pongono, con impropria irriverenza, coloro che avrebbero dovuto. per missione, per dovere e per coscienza, risolutamente intervenire per impedire che tanti giovani pargoli lucani fossero costretti a prendere il largo per trovare riscontro adeguato alle professionalità ed alle competenze conquistate con grande impegno e sacrifici. “Stand Up”, così è stata battezzata l’iniziativa del Comitato per la lotta alla miseria nel mondo. Milioni di persone, il 15 e 16 ottobre sono state invitate a compiere un semplice gesto, quello di alzarsi, per sollecitare il rispetto degli impegni assunti dai governi per combattere la miseria. Anche la Basilicata ha aderito allo “stand up” e sarà curioso sapere se tra coloro che si sono alzati vi sono anche gli esponenti delle amministrazioni che hanno governato e ridotto alla povertà gran parte del popolo lucano. Se così è, questa volta, per overdose di demagogia e con una certa dose di incoerenza e superficialità, si sono alzati in piedi proprio coloro che dovevano stare seduti, i tanti coccodrilli della politica e delle istituzioni che non hanno perso l’occasione per fare populismo inutile e fuori luogo. Stand Up contro la povertà! Stand Up contro le ingiustizie! Stand Up per rispettare le promesse! Questi erano gli obiettivi principali dell’iniziativa mondiale a cui hanno prontamente aderito le istituzioni e i politici lucani. Sottotitolo più appropriato: Stand Up, alzatevi imputati.
venerdì, ottobre 13, 2006
FELICI E SCONTENTI
Non è come la fortuna, che a volte è dietro l’angolo. La felicità ti sta perfino accanto, ti danza intorno, appare e scompare, ti insinua il dubbio. Fiumi di inchiostro sono stati spesi senza giungere mai ad una definizione compiuta ed esaustiva del fine cui, da sempre, tende l’umanità. E non poteva essere diversamente, dal momento che della felicità si possono fare mille ritratti ma non è consentito di incorniciarla in un quadro da affiggere alla parete. L’importante è riuscire a pensarla, immaginarla e percepirla, magari come un gustoso gelato alla mela verde che, semplicemente, riesce ad appagare lo spirito inquieto di un signore lontano dalle formalità obbligate, quantunque tradito dalle moderne illusioni tecnologiche che alimentano i surrogati di avvincenti dialoghi. Però, se la sfera della felicità non è solo una chimera, ma una preda da inseguire, una specie di caccia al tesoro individuale e collettiva, dove non contano più soltanto le aspettative collegate ai sentimenti ed alle passioni, ma anche il benessere economico e la soddisfazione materiale, ecco che per il popolo lucano giunge un’altra tegola sulla testa. In base alle moderne teorie economiche ed agli studi sulla felicità effettuati da noti scienziati e ricercatori, i cittadini della Basilicata risultano fanalino di coda, non soltanto nella classifica del PIL (prodotto interno lordo) ma anche in quella del FIL (felicità interna lorda). Essa è stata calcolata sulla base del grado di soddisfazione delle persone in relazione ad una serie di componenti strategiche economiche e sociali, di cui farebbero bene i governanti regionali a tenerne debito conto ai fini della definizione degli orientamenti e delle scelte politiche da compiere. Dal campione oggetto di una recente ricerca emerge che, a fronte del 13% dei cittadini italiani che si dichiarano molto felici e del 25% che afferma di essere poco o per niente felice, ben il 61% degli intervistati si considera abbastanza felice della vita che conduce, ma nessuno di esso indica la Basilicata come luogo di felicità. Al primo posto troviamo l’Emilia Romagna, seguita dalla Lombardia, dalla Toscana, dal Veneto, dalla Sicilia e via via tutte le altre regioni, fino a giungere al fondo di una graduatoria, per noi, per nulla gratificante. Se ve ne fosse ancora bisogno, questa preoccupante cartina al tornasole rende evidente l’incoerenza e l’inefficacia delle politiche adottate e forse può contribuire a smascherare una ricetta del modo di governare che si è sostanziata in molto fumo per i cittadini, in tanto arrosto per l’oligarchia al potere, in innumerevoli promesse di futuro benessere, soltanto per convincere i primi ad accontentarsi del fumo. Ma, come è noto, a parte quello associabile agli improponibili inebriamenti molto in voga negli ambienti artistici, sportivi e, non sia mai detto, anche parlamentari, di solo fumo nessuno si è mai saziato né, tantomeno, ha tratto alcun felice giovamento. Eppure, fin dall’antichità, dal tempo degli Egizi, la qualità del saper governare era condizione essenziale per il buon vivere. I popoli più felici, raccontava Frédéric Bastiat, furono quelli dove la legge interveniva di meno lasciando spazio all’individualità delle persone di potersi esprimere liberamente, quelli dove le imposte erano meno pesanti e sbilanciate, dove il lavoro, i capitali, la popolazione, subivano i minori disagi creati ad arte, dove l’umanità poteva seguire maggiormente la propria strada. Fu Ferdinando I, nell’anno 1820, a dare prova di illuminante sapienza governativa, tanto da introdurre nella Costituzione del Regno delle due Sicilie uno specifico articolo sulla felicità: “L’oggetto del governo – recitava l’articolo 13 dell’allora carta fondamentale - è la felicità della nazione; non essendo altro lo scopo di ogni politica società, che il ben essere di tutti gli individui che la compongono”. Ai tempi dei nostri premierati “berlusconprodiani”, abbiamo, invece, che il paese più felice del mondo è quello dell’arcipelago di Vanuatu, mentre l’Italia raggiunge appena il sessantaseiesimo posto. Peggio di così! Ma la Basilicata, per fortuna o sfortuna della sua gente, ha un asso nella manica che altri non hanno: quello di poter conservare una condizione di “felice schiavitù”. Ad incominciare da chi veste i panni di sciamano di periferia e opera, invece, da custode dei padroni del pastificio. Schiavi sì, ma felici. Felici sì, ma scontenti.
venerdì, ottobre 06, 2006
AMORALITA'
C’era una famiglia, mamma Rosina, papà Luigi e quattro figli, di nome Francesco, Domenica, Rocco e Debora. Nelle nostre famiglie, si sa, con l’ultimogenito ci si concedeva il lusso di uscire fuori dalla tradizione e di “segnare” il rampollo di più tenera età con un appellativo modaiolo o inusuale che, a pensarci bene, è stato il primo segnale della falla che si è progressivamente aperta nell’istituzione familiare. La famigliola era completata da nonno Ciccio, componente aggiuntivo, gradito a grandi e piccini, per affetto di stirpe ma anche per titolarità di assegno pensionistico mensile, utile per la sopravvivenza di tutti. Una famiglia come tante, imperniata sulla saggezza, sulla laboriosità e sul rispetto di quei valori morali tramandati di generazione in generazione, che hanno miracolosamente consentito al popolo italiano, impoverito e malridotto dagli eventi bellici, di percorrere, a grandi falcate, il cammino verso lo sviluppo e il benessere. Nel segno di tutti per uno e uno per tutti. Rosa e Luigi riuscivano a camminare lassù, sulle misere zolle di montagna, appena sufficienti ad immaginare il giorno che doveva arrivare. Ma non si persero d’animo, lavorano sodo e in umiltà e non furono più servi del vecchio padrone. Così, conobbero la città, si svincolarono del pudore e del timore del vicinato, allargarono le loro conoscenze e la loro mentalità. Non più rispetto delle antiche usanze e dei principi fuori del tempo, ma moderni atteggiamenti dettati solo dai nuovi riferimenti comportamentali. Quelli dell’interesse personale sopra di tutto, del compromesso ammesso in ogni caso, della furbizia spicciola a danno di chiunque, del cinismo teorizzato e sistematicamente praticato. Anche verso i figli e gli amici più bisognosi. La vecchia famiglia ne risultò annientata e, senza più l’antico spirito di vicinanza e solidarietà, i genitori si dedicarono ad accumulare proprietà e ricchezze, alla figlia Domenica fu riservato un matrimonio di convenienza, Francesco che non aveva studiato fu abbandonato al proprio destino, i figli più giovani, Rocco e Debora, smentendo il detto latino che “nomen omen” (il nome è destino), finirono per fare i camerieri saltuari ogni qualvolta dovevano impasticcarsi. Insomma, quasi senza accorgersene, non si sa come e perché, ma tutte le virtù familiari sparirono e lasciarono il posto ad un lento declino che annullò ogni sacrificio compiuto ed ogni progresso conseguito. Il capofamiglia non volle più ascoltar ragioni e consigli da parte degli altri e pensò esclusivamente ad autoalimentare il proprio potere. Man mano scomparve il sentimento unificante, la visione collettiva, la passione civile e presero il sopravvento l’egoismo individuale, l’utilitarismo sfrenato, la degenerazione comportamentale. Fu il trionfo dell’amoralità e dell’ingiustizia, ed a pagarne le spese furono soprattutto i soggetti più deboli della famiglia: nonno Ciccio, che per poter finire i propri giorni rinchiuso in una casa per anziani dovette impegnare l’intera pensione e Francesco, che per poter continuare ad utilizzare il vecchio casolare ed a coltivare l’orto nel terreno di proprietà dei genitori, fu costretto a pagare un fitto mensile, impegnando gran parte del ricavato delle dure giornate da bracciante. Proprio come i servi di tanto tempo addietro. Proprio come la maggior parte dei cittadini di oggi. Sottoposti all’ingiustizia di una logica amorale e di un modo di agire delle oligarchie di potere che finiscono per sconfessare se stesse e ciò che rappresentano, pur di mantenere l’impalcatura privilegiata. Nessuna morale e nessuna ideologia, né di destra, né di sinistra. La legge finanziaria, di cui tanto si parla, non è né di taglio riformista, né di stampo conservatore. Semplicemente è amorale! Nel senso che non ha nessun rapporto con la morale. Non diciamo quella dei trattati di Cartesio, del Manzoni, di Kant, di Nietzsche, ma quella del civile buonsenso che avrebbe dovuto sconsigliare, ad esempio, di reintrodurre il ticket sul pronto soccorso ospedaliero e, ancor più, di non essere finanche sbeffeggiati dalla “Ministrina” Turco. Ci vuole molta faccia tosta, da parte dell’altra “mascella esageratamente spronunciata”, insieme alla collega gemella Rosy Bindi, ad affermare che si tratta quasi di un servizio aggiuntivo basato sulla dissuasione dei furboni italiani ad andare a trascorre i weekend al pronto soccorso degli ospedali superstiti che ancora non sono stati chiusi. Ma cosa va a pensare, cara Ministra? Le è mai passata per la testa che questa tassa la pagheranno solo i poveri meno poveri, perché quelli più poveri eviteranno di verificare la portata di qualsiasi malanno? Ha mai visto, per caso, un ricco presentarsi al pronto soccorso di un ospedale pubblico? E se l’immagina, gentile Livietta, un cittadino che per non corrispondere l’ingiusto obolo al suo pensare deve sperare che il disturbo avvertito sia un vero infarto? Questa volta la morale della favola è proprio triste: l’amoralità delle persone e dei governi è peggiore dell’immoralità. E’ così che degenerano le famiglie, ed è così che si fa morire la politica.